Sulle parole usate alla cazzo







Tutto il mondo ieri ha assistito all’inizio di un quartetto di anni di merda per gli Stati Uniti e per il mondo. In quelle considerate essere in una bolla democratica, le città americane sono silenziose, di un silenzio pesante, angoscioso, che puzza di morte annunciata. Le persone camminano con la testa bassa, frastornata da ciò che rimarrà di una nazione democratica.

Ieri abbiamo assistito a parole terrificanti, a giuramenti falsi, a strette di mano fra nemici, ma soprattutto abbiamo assistito al movimento del braccio destro di Elon Musk, quello che ha fatto mentre ringraziava gli americani che gli avevano dato il potere che aspetta da anni. Tra le parole di vittoria, ha alzato il braccio destro proprio come facevano i fascisti e i nazisti.

“Non l’ha fatto apposta”, continua a dire mio marito, come se fosse un gesto talmente inquietante da non poter essere vero. Eppure, è perfettamente coerente con i discorsi di Trump e dei suoi compagni di merenda, e il signore dei razzi che esplodono è ben consapevole di ciò che ha voluto esprimere con quel gesto. Ho subito pensato a chi ha avuto famigliari nei campi di concentramento: dissidenti, anarchici, ebrei, zingari, disabili. Chissà cosa ha significato per loro quel gesto, chissà con quale angoscia e terrore sono andati a dormire ieri sera.

Ho la fortuna di non aver perso nessun parente durante gli anni nazisti, ma anch’io, prima di andare a letto, mi sono sentita inerme e schifata di fronte a tanto odio.

Mi sono svegliata che saranno state le otto. Rosie, il mio boxer, aveva la faccia sulla mia guancia e le zampe sul mio costato e sulla pancia. Ma non è per questo che mi sono svegliata: mi ha chiamato Emma, che per tre ore scolastiche lavora nel reparto di cardiologia in un ospedale di Cambridge come aiuto infermiera. Voleva darmi il buongiorno perché è uscita molto presto e non mi ha visto.

La mattina appena sveglia faccio automaticamente sempre gli stessi gesti: mi faccio una spremuta con due arance mentre aspetto il caffè, mi assicuro che sul tavolo ci siano medicine, zucchero, un cucchiaino e il mio iPad. Mentre sorseggio, apro per prima cosa la Repubblica e poi il Washington Post. Mi piace leggerli tutti e due: il primo per essere al corrente degli affari italiani e per leggere un punto di vista diverso da quello americano, il secondo per approfondire alcuni argomenti che mi stanno a cuore.

Ingoiate le pastiglie con la spremuta, giro lo zucchero nel caffè e su La Repubblica leggo: “Il saluto romano. Elon Musk fa il saluto romano sul palco. “È autismo, non nazismo”, ha scritto Andrea Stroppa, suo referente italiano dopo aver postato e poi cancellato il video”.

Rimango con la tazza a mezz’aria e rileggo. Dice proprio così, che il signor Stroppa ha stroppato, dando una diagnosi che richiede mesi di accertamenti a un nazista che appoggia senza neanche vergognarsi il partito neonazista in Germania.

Ormai, dopo 28 anni, l’autismo mi esce dalle orecchie. Ho avuto la fortuna di conoscerlo a fondo e la sfiga di aver sacrificato i migliori anni della mia vita a starci dietro. Se c’è una cosa che ho imparato è questa: le persone neuro divergenti e in particolare autistiche, non sono di parte. Non sono né naziste né comuniste. Sono chiuse nel loro mondo che ha senso soltanto per loro, organizzato da loro per loro. Non hanno nessuna voglia di impicciarsi in temi che considerano futili. Sicuramente ci saranno persone nello spettro autistico ossessionate dalla politica: sanno date di nascita e di morte di tutti i personaggi storici. Ma è diverso.

In poche parole: il signor Stroppa ha usato un termine alla cazzo (scusate il francesismo) per dire che Musk ha fatto un gesto così terribile perché è autistico, cioè malato, folle, da non considerare.

Ero già carica di sdegno per il giorno prima, figuriamoci dopo aver letto ‘sta stronzata. In fondo, mi sono detta piegando le mutande di Dan appena uscite dall’asciugatrice, con ‘sta gente al potere dobbiamo accettare gli insulti perché ci sono pesci ben più grandi da prendere. Ma adesso, che sono quasi le cinque, non ne sono più molto convinta.

Ho deciso: scappo da qui e vado a vivere su un’isola caraibica senza wifi. E senza teste di cazzo.

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