Anche Emma spicca il volo (e io piango)
Ormai dovrei essermene abituata: prima ha lasciato la sua cameretta Sofia, quando è andata all’università a un’oretta da casa. Poi, scoop che pareva impossibile, anche Luca ha lasciato indietro i suoi poster di James Tylor, Stevie Wonder e di Doctor Seuss per intraprendere una vita da adulto. A fine estate, tocca anche a Emma, che inizia il suo percorso universitario per laurearsi in infermieristica, la sua passione.
Negli Stati Uniti, è più che normale che si lasci casa quando si è giovani. Per i primi quattro anni, cioè durante l’università, si vive nel campus, che è un posto relativamente protetto: vitto e alloggio sono compresi nella retta, ci sono servizi di tutti i tipi per gli studenti, dal medico allo psicologo; dal docente all’assistente. Poi non si torna quasi mai a casa: a 22 anni, quando terminano gli studi, i giovani cercano un lavoro, un appartamento, magari all'inizio da condividere con amici; chi ha la possibilità, viene aiutato dai genitori per i primi mesi, cioè il tempo di trovare lavoro e cominciare a essere indipendente anche dal punto di vista economico.
Per i genitori, sono grandi soddisfazioni: il lungo e faticoso compito di insegnare ai propri figli ad essere indipendenti e responsabili comincia a dare i suoi frutti. Si può riprendere la vita di coppia messa in pausa per anni, si comincia a viaggiare, a uscire di più la sera, ad andare alle feste da amici. Si può ricominciare a leggere, anche di pomeriggio senza sensi di colpa. Si possono preparare cenette romantiche. Tutto molto bello. Insomma, la famosa happy ending americana. Sono convinta che sia un ottimo sistema, giusto sia per i ragazzi che per i genitori.
Io invece, ogni volta soffro come una bestia.
Emma è la mia bimba piccola, così distante di età rispetto ai suoi fratelli da essere considerata in qualche modo figlia unica. La sua è stata una nascita molto complessa. Essendo la terza gravidanza, conoscevo bene i primi sintomi delle contrazioni, eppure lei non dava nessun segno di voler nascere. L’ostetrica mi disse di andare in ospedale che mi avrebbe indotto il parto, anche perché ormai Emma era grande come un bimbo di un mese. Andammo, io e Dan, emozionati come se fosse stata la prima volta. Mia mamma era arrivata da Milano per stare con gli altri due.
Dopo aver fatto l’epidurale, non è successo niente, a parte delle contrazioni da far tirare giù tutti i santi. L’ostetrica? Leggeva il giornale, tranquilla come un Pasqua. Insomma, per farla breve, finalmente inizio a spingere e una spalla di Emma rimane incastrata nel collo dell’utero. Per liberarla, l’ostetrica le tira violentemente il collo, danneggiando in modo permanente alcuni nervi del braccio. Risultato: abbiamo vinto la causa (Emma infatti è ricchissima), Emma ha dovuto subire due operazioni molto delicate al braccio, che comunque non andrà mai a posto, disagio perché non solo non riesce a muovere il braccio destro in modo corretto, ma nasce con il suo braccio un rapporto di odio: le fanno molto impressione le cicatrici e guai che gliele tocca. Anni e anni di fisioterapia, da quando aveva tre anni fino a un paio di anni fa. Insomma, un incubo. Ma, a parte questo, me la sono coccolata tanto quando era piccola e Luca e Sofia andavano a scuola. È stata il mio esperimento, nel senso che le parlavo soltanto italiano e infatti fino a quando è andata all’asilo non parlava neanche una parola di inglese.
Sempre perché è la terza ed è molto giudiziosa, l’abbiamo lasciata spesso a casa da sola da quando aveva 14 anni in poi, cioè quando ha iniziato a rifiutare categoricamente di venire con noi tra i boschi di Becket durante i fine settimana. Si è guadagnata a pieno la nostra fiducia: siamo sempre tornati a casa che era pulitissima, nessuna festa di nascosto, nessun tipo di alcool, nessuna canna, mai. Ha quindi imparato fin da giovanissima (ma lo è sempre stata) ad essere indipendente. Le piace molto stare a casa da sola: guarda la tele, ordina cibo pattumiera, a volte invita un’amica o due a mangiare o a dormire insieme. Per il resto, lavora. Siamo arrivati a un punto tale d’indipendenza che non riesce a nascondere il desiderio di rimanere a casa da sola il più possibile e ci chiede sempre quando andiamo a Becket. Malgrado il fatto che mi sento cacciata da casa mia, il ché non è il massimo, immagino che durante i suoi quattro anni di università non sentirà molto la nostra mancanza. O forse sì, chi lo sa. Ma una cosa è certa: manterrà con forza l’ottimo rapporto che ha con sé stessa.
Mi mancherà da morire: la mia bimba diventa grande e la sua assenza in casa sarà molto sentita. Emma mi abbraccia sempre, non fa che chiedere come è andata la mia giornata, è curiosa, empatica, fa morir dal ridere. Insomma, una figa atomica che lascerà anche lei la sua cameretta per spiccare il volo. Brava Emma!
Io invece vado un attimo in bagno a piangere.
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