Siamo io e te, papà
Come tutte le cose che poi rimangono, l’idea è nata da una
seduta in uno studio di terapia di una palazzina assolutamente anonima vicino a
Cambridge. Nel Massachusetts. Negli States.
Lei ascoltava quello che avevo da dire del mio passato
ingombrante, sfociato in un presente diverso e difficile, e aspettava un
momento mio di pausa per dirmi la fatidica frase: guarda al futuro, basta con
questo passato. Se proprio lo vuoi sviscerare, scrivi, visto che ti piace così
tanto.
L’ho presa come sfida, e ho chiamato il Giorgio Terruzzi,
per dirgli, insegnami a scrivere un libro, adesso, al telefono. Lui, con la sua
pazienza e la sua parlata che da far ridere diventa seria da una parola
all’altra, ha cominciato a aiutarmi.
E così, ben due anni fa, mi sono seduta alla scrivania che
mio padre mi aveva regalato per un compleanno anni e anni fa, e ho cominciato a
scrivere. Scrivevo, piangevo e mandavo a Giorgio, che mi diceva, dirigeva,
commentava, insegnava. A volte anche lui, ha ammesso, piangeva. Continua, vai
così, tira fuori, diceva.
Insomma, il tutto è finito un sei mesi fa: c’ho buttato
dentro mio padre, tanstissimo. E poi la mia decisione impulsiva di seguire Dan
in America mollando tutto il bendiddio che avevo, ma anche quello che non avrei
mai più avuto. C’ho buttato dentro anche il percorso iniziato da una telefonata
della pediatra di Luca che diceva, quasi scusandosi, che l’esito dell’esame del
sangue del mio bimbo di quattro mesi era finalmente arrivato: Signora, mi dice,
suo figlio ha la sindrome di Down, ma è strana. Cerchi sull’Internet, che io
non ne so niente. Have a nice weekend.
Per ognuno di questi tre episodi ho descritto come se
guardassi a una fotografia quello che era successo, e quello che io percepivo
ogni volta che mi dicevano, wow, Beppe Viola, senza rendersi conto che per me
era il mio papà, che avrebbe dovuto firmare il diario, gli avvisi, che avrebbe
dovuto ascoltarmi quando avevo bisogno. Ogni volta che un americano mi dicevano,
wow, Milano, fashon city, senza rendersi conto che io amo il mercato del
Mercoledì, e che invece per me Milano è casa, con tutti i suoi annessi e
connessi. Ogni volta che mi dicevano wow, sindrome di Down, autismo, ma come
fai?, senza rendersi conto che anche io non avrei voluto fare, anche io avrei
invece voluto una roba diversa, ma che invece faccio ogni santo giorno, e
stranamente faccio con piacere e soddisfazione.
Insomma, un lavorone.
Poi mando, soprattutto alle sorelle, che rimangono colpite
dal mio tono senza filtro. Si scandalizzano un poco per aver condiviso alcuni
episodi che invece sono sempre rimasti non detti neanche tra di noi, per
pudore, per paura di trovarci dentro degli altri motivi per essere tristi.
Poi anche loro, fiere, lo mandano in giro. Serena lo da al
suo amico Alberto Schiavone, un giovane e bravissimo scrittore torinese, amico
suo. Che lo da a un amico che lavora in editoria.
La settimana scorsa avevo la febbre, la congiuntivite, la
tosse e il raffreddore. Mi sentivo giù e dunque triste, sola e abbandonata.
Parlavo che sembrava avessi due carote su per le narici, e l’occhio rosso e
gonfio mi faceva avere un’espressione di un boxer sconfitto in malomodo.
Squilla il telefono. Sono Giuseppe, lavoro per una grande casa editrice. Bello, il libro,
anzi, dice lui, i libri, che secondo me ne hai scritti due: uno su tuo papà e
uno su di te. Vuoi lavorare con me? Con noi? Mi piacerebbe essere il tuo
editor. Così ha detto: il tuo editor.
Per cui, via per questa nuova esperienza, nata anni fa da
una seduta assolutamente inutile nell'insulso studio di una psicologa annoiata del mio passato, e
per nulla colpita dal mio presente.
Sono ovviamente emozionata: mi sembra una roba più grande di
me, anche se per la prima volta nella vita mi sento di avere un compito che sono
capace di fare.
Oggi invece mentre mi mettevo il collirio pensavo, cazzo,
non ho chiesto a papà se va bene che faccio quello che faceva lui. Delle
quattro figlie brillanti che lui e mia mamma hanno avuto, sembra essere
capitata a me la sorte di seguire la sua carriera, o almeno provarci. Come non
mai mi è mancato il numero di telefono da chiamare per potergli parlare,
chiedergli consiglio, aiuto. Perché nel libro siamo io e lui, o meglio il papà
che propongo è solo mio. Quello di Anna è sicuramente diverso, solo suo, e così
per Renata, e ancora diverso per Serena. Ognuna di noi ha dentro il proprio
papà. E questo mio rapporto intimo con mio papà, coi suoi due ruoli di padre e
di Beppe Viola adesso lo rendo pubblico.
La responsabilità di fare un buon lavoro, di non in qualche
modo disturbare il suo lavoro fatto quasi mezzo secolo fa, che è lì, intaccato
da allora, è enorme. Per la prima volta in trent’anni verrà pubblicata una cosa
firmata Viola, senza neanche che lui lo rilegga per sapere se va bene.
Poso il collirio e mi fiondo in camera da letto. Lì ho due
cose che uso come interlocutori tra me e un’improbabile presenza di papà
dall’altra parte del muro: una lettera che mi aveva scritto anni fa che inizia
con “Mia piccola e dolce Marina”, così mi chiamava lui, e continua con
parole di tenerezza che solo un papà pieno di emozione può scrivere in risposta
a una delle lettere che gli avevo lasciato sul cuscino. Poi c’è una sua foto,
in bianco e nero. È un primo piano del suo profilo. Si intravede la spalla
nuda, per cui immagino fossimo in spiaggia a Bordighera. Lui guarda in basso, e
ha un’espressione tra il sorriso e il concentrato. Ho sempre pensato che sia
l’espressione che avrebbe se gli parlassi di robe importanti.
Mi fiondo davanti a questo mio altarino e dico: “va bene?
Chiedo perché qui siamo io e te e basta. Vado avanti? Mi aiuti o fai quello che
non risponde al telefono? Altro che piccola e dolce Marina, papà. ‘Sta volta ci
vado giù dura. “ La sua espresisone quando la fisso per tanto, sembra quasi
muoversi. Invece no.
Magari invece poi è anche fiero.
il suo numero di telefono. una volta l'ho fatto, volevo chiamare mia madre. ti capisco, e ti auguro tutto il bene possibile. anch'io ci sono dentro, e ti capisco.
RispondiEliminaQuando esce sto libro?
RispondiEliminaho fatto bene a tenere bene a tenere le tue lettere, sai il valore, adesso che mi diventi famosa.
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