Malinconie da lunedì mattina
Lunedì mattina è iniziata con una tosse malaticcia che se
continua mi fiondo dalla dottoressa, che mi farà il solito culo americano
antifumo che entra da una parte ed esce dall’altra.
Poi però un bacio di Emma, che stamattina era
particolarmente bella, e uno di Dan, assieme a un caffé di quelli buoni buoni e
mi sento meglio.
Se ne sono andati via tutti: Luca, Sofia e poi Emma e Dan, e
me ne sono rimasta a casa da sola, a sorseggiare il caffé e a intrufolarmi
nella vita facebook di gente che conosco solo in quella maniera lì. Guardo
fuori ed è grigio. La settimana scorsa c’erano quasi trenta gradi, e adesso
guarda che squallore.
Ed eccola che arriva, come un vecchio cliché, proprio di
lunedì mattina: fantasia zero. È la mia malinconia, che a volte mi assale senza
preavviso e mi porta via dal mio corpo e mi fa volare nella mia mente a anni e
anni fa, in luoghi diversi, situazioni diverse, colori e suoni e odori tutti
diversi da qui.
Mi ritrovo nel terrazzino della camera dei miei genitori,
tra l’altro un terrazzino squallido, usato prevalentemente da vespasiano per i
piccioni. Per terra ci sono delle mattonelle rettangolari rosso-marroncino, con
dei disegni bianchi. La ringhiera è sottile e mi sembra anche un po’ bassa,
pitturata di marrone. Dà sul cortile, come danno sul cortile il retro di alcuni negozi: il
salumiere, che adesso non è più il salumiere, e il panettiere, che da anni ci
regala l’odore del pane appena sfornato. C’è anche il retro del parrucchiere, e,
quando eravamo piccole, anche quello del lattaio.
Il signor Siliprandi, che abitava al primo piano, era il
lattaio: grassottello, con un viso sempre felice, che quando ci vedeva faceva
sempre finta di cadere dalle scale e noi giù a ridere. Mi ricordo quando la
mamma mi chiedeva di andare a comprare un quarto di latte, quello della Centrale del latte di Milano nella confezione
triangolare. Mi dava il portafogli e gasata scendevo i quattro piani di scale.
Entravo e il signor Siliprandi mi accoglieva sempre con un sorriso. Io dicevo:
un quarto di latte, tre Mars, quindici liquerizie, dodici rotelle. Lui diceva,
ma sei sicura che la mamma lo sa? È l’ora di cena… Certo, rispondevo finta
indignata dei suoi dubbi e anche un po’ timida. Poi con tutto questo ben
d’iddio salivo le scale lentissimamente, cercando di ingerire la maggior parte
della mercanzia. Al terzo piano cominciava un nausea da zucchero che mi
accompagnava fino alla porta delle scale di casa nostra, e spesso fino a cena,
quando la mamma rognava che non mangiavo mai niente.
Poi quando il signor Siliprandi è morto, la latteria chiuse
e adesso è diventato un postaccio, una specie di birreria, dove spesso i clienti a una
cert’ora della notte si insultano e pisciano sulle macchine parcheggiate.
Peccato.
Anche il parrucchiere venne venduto, e in questo
c’entriamo anche io e mia mamma.
Avrò avuto si e no dodici anni, e avevo appena portato
Druscia, il boxer dei miei zii, a fare una passeggiata in zona. Entrai dal
portone seguita dal signor Luigi, il parrucchiere proprietario del negozio, che
conoscevo di vista da tutta la mia vita. Mi segue fino all’ascensore. Io
schiaccio la T per chiamarla, e aspetto. Druscia si siede paziente. Il signor
Luigi comincia a mettermi le mani addosso, dentro la maglietta, tra le gambe, e
mi tiene ferma. Mi dice che adesso mi prende e mi porta in macchina con lui a
fare un giro. Io rimango assolutamente immobile, tranne una lacrima di terrore
che mi scivola sulla guancia. Druscia sempre seduta, da brava.
Poi finalmente arriva l’ascensore, e riesco a spingerlo via
da me; apro l’ascensore di fretta e scappo. Quando arrivo a casa i miei
genitori sono seduti in sala. Io, in lacrime, racconto cos’era appena successo. Si
guardano sbalorditi e mi a madre dice, ci penso io. Ghe pensi mi.
Prende l’ascensore, e va nel negozio del signor Luigi, pieno
di vecchiette che aspettano di fare la messa in piega. Qualcuna sotto il casco,
qualcuna davanti allo specchio che aspetta, qualcuna che si sta facendo fare lo shampoo. Mia madre, che era diventata una
belva, entra e si presenta alle signore: il signor Luigi, signore mie, è un
porco. Ha appena toccato mia figlia. E lei, signor Luigi, non si permetta mai
più di parlare con nessuna delle mie figlie, che io lo denuncio, porco di
merda! Lui risponde, ma signora, come si fa a resistere..è carne fresca. Non lo
doveva dire. Mia madre non ci vede più e si sbizzarrisce con gli insulti.
Qualche vecchietta si alza spaventata, molte indignate. Quelle sotto il casco
non sentono ma capiscono che la situazione è più interessante di Novella
Duemila, che sfogliano ormai da mezz’ora.
Per mesi io ebbi il terrore di uscire e di incontrarmelo
davanti. Avevo paura che mi dicesse cosa sei andata a dire a tua madre, e che
mi picchiasse, o che mi portasse davvero via con la sua macchina. Mia madre mi
diceva, non ti preoccupare che ha più paura lui di noi. E aveva ragione lei: il
signor Luigi dopo qualche tempo vendette il negozio e nessuno lo vide più.
Ancora adesso ho il terrore degli ascensori, e non ci salirei
mai da sola con un uomo, piuttosto mi faccio venti piani a piedi. E se sono in
ascensore da sola, e si ferma e entra un uomo, io esco.
Insomma, il cortile e le sue porte dei negozi me le ricordo
bene, mentre la mia mente mi porta ad appoggiarmi alla ringhiera del terrazzino
della stanza dei miei genitori. La ringhiera stessa ha una storia: quando ero
picolina, mentre mia madre faceva il letto, io presi la scala del letto a
castello, la appoggiai alla ringhiera con gli ultimi tre gradini che arrivavano
oltre la ringhiera nel vuoto, e mi arrampicai sull'ultimo gradino, quello che stava oltre la ringhiera, e mi misi a fare l’angelo, con un piede solo e
le braccia lunghe di lato. Mia madre fortunatamente appena mi vide non mi
chiamò, ma si lanciò per prendermi dalle bretelle mentre io speravo invece di
spiccare il volo, facendomi sbattere la testa contro le piastrelle che erano
ancora quelle che ci sono adesso. Me la ricordo bianca cadaverica seduta sulla
poltroncina della sua camera che diceva mi fai morire.
Infatti mio padre, che soffriva di vertiggini, dopo questa
mia pensata non ci lasciò mai più andare in terrazzo da sole, che aveva il
terrore che ci buttassimo giù.
Basta con sti ricordi: lascio il terrazzino e mi ritrovo
nella penombra della camera dei miei genitori. Quante notti nel lettone, tra
loro due che russavano in un modo pazzesco, soprattutto mia madre. Mio padre
una notte arrivò a casa che lei già dormiva e russava e decise di registrarla.
La mattina dopo le chiese secondo lei cosa fosse quel rumore: una motocicletta?
No. Un camion? No. Ridemmo tutti per anni.
Lascio la camera dei miei, mi intruffolo nel corridoio. Vedo
mia madre in cucina, ma lei non mi può vedere, perché sono lì solo con la mia
mente. Non vedo l’ora di riabbracciarla. Tra qualche settimana sono a Milano,
in quella casa piena di spiriti che mi coccolano. Tiro diritto fino
all’ascensore e poi torno qui a Cambridge.
Sono quasi le dieci e non ho ancora fatto niente.
Mi prendo la mia malinconia, me la metto da parte che devo
preparare la lezione che insegnerò tra un paio d’ore. Non sono certo queste le
cose che vogliono imparare.
E come sempre piango.
forse può servire, anche da lontano: un abbraccio
RispondiEliminaserve, serve
RispondiEliminaBello, come sempre, e come sempre tocchi (ehm, per stare in tema) corde comuni. Baci Alessandra
RispondiEliminaMarina, il libro del tuo papà è sempre sul mio comodino, e ora il tuo blog tra i miei preferiti... e mi viene anche da piangere.
RispondiEliminaOra torno nell'ombra, come si usa tra noi figuranti, ma prima un saluto caro.