Anche i ricchi piangono
Vorrei che magicabula e
tutto va a posto, come i film che guarda la mia bimba Emma, che si, ci sono dei
problemi, ma poi tutti vissero felici e contenti.
Eppure io di persone
contente ne incontro poche, come se la condizione di essere adulti implichi in
qualche modo uno sfondo di insoddisfazione, di infelicità, che non è il
contrario di felicità, che è da pirla, ma di una sottile eppur presente
serenità.
Parlo con i miei amici e
li sento dire di cosa li rende poco felici: il lavoro, i figli, il compagno, il
passato. C’è sempre qualcosa che intralcia. Ma mi sembra di aver finalmente capito cosa ci butta giù: siamo tutti esageratamente viziati.
Abbiamo uno standard di vita inimmaginabile per i nostri nonni, per dire, che
hanno vissuto una o due guerre. Abbiamo la macchina, spesso due, diversi computer, l'ultimo modello dell'iphone, andiamo a fare delle belle vacanze, abbiamo spesso delle famiglie alle spalle che ci vogliono bene, non lavoriamo in miniera e non puliamo i cessi della
stazione centrale.
Eppure non ce la facciamo
a sentirci felici.
Penso spesso al mio vicino
di casa di Becket. Spiego: Becket è un paesino piccolino, e chi ci abita fa il
falegname, l’idraulico, lo spazzacamino. Il benzinaio no, perché non c’è neanche
una pompa di benzina. Noi, che abitiamo nella fighissima e ricchissima
Cambridge, dove anche il tranviere ha il Phd in economia, andiamo il
finesettimana lì, nel paesino senza pompa di benzina, dove abbiamo una seconda
casa nel boschetto.
Bill, il nostro vicino di
casa, ha qualche anno più di noi ma sembra più vecchio di vent’anni. Ha gli
occhiali spessi, che gli fanno gli occhi grandi, la faccia scarna piena di
rughe, i capelli sempre unti, lo sporco sotto le unghie. Parla mangiandosi le parole, sbagliando la
grammatica, dicendo parolacce quando non servono. Ha la sensibilità di un
elefante. Da quando lo conosco ha su gli stessi pantaloni, solo un po’ più
sporchi dell’anno prima. Di lavoro (quando lo trova) aggiusta i tetti. Viveva
con Barbara, la sua compagna che aveva conosciuto in fabbrica anni fa, ma
adesso lei lo ha cacciato di casa, per cui vive in una casa senza cucina a gas
e senza bagno. Non ha neanche un amico.
Bill non è molto diverso
da mister John, che vive un po’ più in là e per lavoro (quando lo trova) fa il
tagliabosco, e vive in una roulotte su cui ha costruito un pezzo di casa il cui
tetto è un tendone blu. Per dire, non è che Bill sia l’eccezione.
Una sera che eravamo
seduti a chiacchierare, Bill ci ha raccontato della sua vita. Il suo primo
ricordo è di quando aveva sette anni. Era poverissimo, non aveva neanche gli
occhi per piangere. Suo padre, alcolizzato e violento, lasciò la madre,
disoccupata e ventenne, con due bambini a carico. Una sera Bill era a casa sua
con il fratello minore, la madre e il compagno della madre, che durante una litigata tirò fuori dalla tasca una pistola e sparò,
uccidendo la madre davanti ai due bimbi. Iniziò per loro un andirivieni di
orfanotrofi, famiglie che li prendevano per un po’ e poi li abbandovano, poi la
separazione dal fratellino, gli anni di sbronze, fino al giorno in cui il padre,
che fino ad allora era stato un perfetto sconosciuto, lo chiamò per dire, vuoi
diventare mio amico? Bill dice si, ma il padre muore poco dopo bruciato in
autostrada, nella macchina che scoppia.
Dico io, ma se a me o a
una persona del mio ceto sociale avesse avuto un decimo di quello che ha
passato Bill, altro che terapia settimanale: sarebbe assolutamente distrutto,
non potrebbe condurre una vita normale come la pensiamo noi. Eppure Bill
aggiusta i suoi tetti, porta a spasso i suoi cani, viene a far due chiacchiere
e non si pone troppe domande: va avanti così perché è l’unica cosa che sa fare.
Per questo arrivo alla
conclusione che la nostra insofferenza è dovuta alla nostra noia di avere
questo ma non quello, di avere il compagno che invece di dirti buonanotte va di
sopra e si mette a leggere, o lascia i calzini sporchi per terra; di avere un
periodo non soddisfacente al lavoro, di avere i figli in fase adolescenziale
che non fanno che stare davanti al (loro) computer nella (loro) camera coricati
sul (loro) letto. Mi sento un po’ stronza, ecco. E snob.
Ma non mi do neanche la
colpa. Cioè: potrei decidere di vivere una vita più semplice, senza il troppo.
Potrei trovarmi un lavoro da commessa, potrei vivere in una casa più piccola, e
andare in bici. E forse sarei anche più soddisfatta. Ma non lo faccio perché
nessuno attorno a me lo fa, perché il messaggio che ricevo è che la mia vita è
assolutamente normale. Attorno a me tutti hanno più o meno quello che ho io:
viaggi intercontinentali, tre computer, la casa bella, spaziosa e pulita dalle signore delle pulizie, una
buona educazione. E anche una profonda e fastidiosa insofferenza, che invece
Bill non ha. Mi prende sempre in giro quando gli dico di essere stanca, perché, mi
dice, cosa vuoi essere stanca tu. E ha ragione lui.
Questi pensieri,
ovviamente, non fanno che creare ancor più tristezza e desolazione, per cui mi
bevo la mia ultima birretta comprata dal venditore artigiano di birre organiche
e aromatizzate che costano sette dollari a bottiglietta e me ne vado a letto.
È che ci scordiamo di quanto siamo fortunati. Leggi questa storia di una signora che portava il tuo stesso cognome.
RispondiElimina