I primi tredici anni di Oscar
Mi metto comoda sul divano e lui si siede per
terra di fianco a me, dopo essersi arrotolato su se stesso per cinque minuti.
Ci mette un po’ a trovare la posizione, ma alla fine ce la fa. È il momento
esatto in cui mi accorgo di aver dimenticato gli occhiali, o il cellulare. Mi
rialzo e vado in cucina, e lui fa lo stesso: a fatica si rialza dalla sua
posizione trovata e mi segue fino alla cucina, che saranno al massimo
otttanta metri: gli occhiali li trovo subito, rifaccio gli ottanta metri e mi
risiedo. e lui mimica: dalla cucina fa marcia indietro e cerca ancora la
posizione ideale ai piedi del divano. Si arrotola sbattendo i suoi quattro
gomiti sul parquet, con un tac che rimbalza nel silenzio della sala.
Abbiamo adottato Oscar tredici anni fa. Io volevo un cane
dal 1980, e cioé da quando morì Maya, la boxerina che ottenni a botte di letterine
melodrammatiche sotto il cuscino dei mie genitori, e che a quattro anni morì di
tumore alla pelle, che le aveva mangiato metà della faccia. Ricordo ancora che
mia mamma l’aveva chiusa nel bagnetto vicino alla stanza di Renata, e che io
ogni giorno tornata da scuola passavo i pomeriggi con lei, a disinfettarle le
ferite piene di pus e a cantarle canzoncine per tirarla su di morale, mentre lei
metteva la sua testa tumefatta sulle mie gambe e si addormetava, stremata. Morì
poco dopo e per me fu il primo enorme trauma della mia vita.
Da allora non chiesi mai più di avere un cane: nel frattempo
mio padre morì, mia madre rimase da sola con quattro figlie e un lavoro
impegnativo e non era certo il momento di chiedere anche di avere un cane. Poi mi trasformai in un’adulta, mi innamorai di un americano, mi
trasferii negli States e fui testimone oculare dell’attentato terroristico
dell’undici settembre dalla mia casa di New York.
Un giorno che era San Valentino del 2002 mi annoiavo a casa. Vivevo ancora a New York
con mio marito Dan e i miei due figli Luca e Sofia. La città puzzava
delle ceneri dei morti nelle due torri. Dan era da poco stato licenziato da una
casa editrice che pubblicava ricette; Luca aveva sei anni e Sofia tre. Avevamo
pochissimi soldi, anzi non avevamo una lira, men che meno una possibile entrata
mensile.
Fu in quel quattordici febbraio che convinsi Dan ad andare a
vedere i cuccioli nel negozio che si chiamava Puppy City tra la Ocean Avenue e la M street: solo
per vedere, gli dissi. Lui ci cascò subito. Ci mettemmo in macchina e guidammo
per una ventina di minuti. Parcheggiammo proprio davanti al negozio d’angolo, e
entrammo senza indugi. Il negozio era grande, ma vuoto; nel senso che non
c’erano persone, ma attorno alle pareti c’erano delle gabbie in cui dormivano centinaia di cani di tutte le razze. Il commesso, latino-americano magrino e basso che poi scoprimmo si chiamava Oscar,,
rispose negativamente alla mia domanda: no, non avevano dei cuccioli di boxer.
Ma senza perdere un istante aggiunse che questi due cuccioli di golden
retrievier erano in saldo, perché avevano superato di qualche settimana i tre
mesi di vita. Aprì la gabbietta e ne tirò fuori uno dei due a caso. Me lo mise
tra le braccia.
Si vedeva che era malaticcio, impaurito e sottopeso. Guardai
Dan negli occhi e gli dissi: “tu vai pure a casa, io rimango qui per il resto
della mia vita”. Ero convinta che non avrei lasciato il negozio senza quel
cagnolino, mai, per nulla al mondo. Cinquecento dollari, disse il commesso latino-americano,
che poi scoprimmo si chiamava Oscar, la metà di quello che sarebbe costato due
settimane prima. Cinquanta percento di sconto. Cercò anche di venderci il
fratello, ma per me era già una conquista che Dan avesse detto di sì a uno e non mi osai chiederne due. Cosa di cui mi pento quotidianamente,
ovviamente.
Durante il viaggio di ritorno a casa, guidò Dan e io, seduta
di fianco, tenevo in grembo questo batuffolo spaventato color leone: era più
piccolo del nostro gatto Jake, che ci aspettava a casa. “Happy Valentine’s Day”
mi disse Dan, sapendo di aver fatto una follia a spendere tutti quei soldi
senza avere entrate per mesi.
Perché l’amore è una cosa meravigliosa, ma anche irrazionale e pezzoide.
Ci amiamo follemente, e lui non ha ancora oggi imparato a dirmi di no.
Quella volta, da Puppy City andammo direttamente a prendere Sofia
all’asilo per farle la sorpresa, come anni prima avevano fatto per me i miei
genitori con Maya. La sua felicità superò di gran lunga la mia: per lei era
come se avesse finalmente avuto un fratellino da accudire, ma con cui non
competere: il perfetto equilibrio per una vita famigliare inimmaginabile. Sofia
e Oscar da allora divennero inseparabili.
Così Oscar entrò nel nostro quotidiano: ebbe a che fare con in nostri gatti storici Petra e Jake, poi con Sammy, un cane pazzo e enomre che
trovammo al parco e che poi dovemmo dar via, con le due gattine, Lilly e
Olivia, che si addormentavano solamente sulle sua schiena, e infine con Lola, la boxerina che avevo cercato quel San Valentino ma che non avevano.
Oscar ebbe a che fare con Buzz, una specie di senzatetto balordo
che a volte dormiva nel seminterrato di un nostro vicino e che per qualche
ragione si innamorò di Oscar e decise di portarlo al Prospect Park di Brooklyn
ogni giorno: diceva che Oscar era talmente intelligente che quando gli tirava
il frisbee sembrava che lui, il cane, calcolasse da quale parte potesse
atterrare, e si metteva in quell’esatto punto per aspettare l’atterraggio.
Insomma, il suo amore per Oscar era sfrenato e, francamente, esagerato. Se penso
che Buzz è morto l’anno scorso ma che era diventato parte della nostra
famiglia, mi fa venire i brividi alla colonna vertebrale, ma quella è tutta
un’altra storia.
Mi sento un po’ in colpa a voler bene a Oscar come gliene
voglio io. Voglio dire: c’è gente che neanche ci arriva alla sua età; c’è
gente che non ha neanche gli occhi per piangere, e invece Oscar ha avuto tutto
l’amore possibile per un cane, eppure fa parte della storia della nostra
famiglia strana, e ne è parte integrante, anche se ha quattro zampe invece di due, e una coda che scodinzola facendo cadere i nostri bicchieri di vino.
Il fatto è che Oscar tra quarantacinque minuti compie tredici
anni: è in gran forma, a parte qualche acciacco motorio. Come regalo, Sofia,
che non ricorda un giorno della sua vita senza il suo amico del cuore canino,
le preparerà un panino con il burro di arachidi, che da 13 anni è la passione
di Oscar. Emma, che non ha passato un giorno della sua vita senza Oscar, le
regala una baguette.
Oscar veccheitto domani avrà probabilmente la diarrea,
eppure sarà l’essere più felice su questa terra, così come è sempre stato da
quel giorno di San Valentino.
Happy birthday, my old friend!
Happy Birthday Oscar! :)
RispondiEliminaCome sempre, bello, evocativo e caldo.
RispondiEliminaHo avuto un'Oscar anch'io. Era un cosino di pelo bianco e nero, rincorso da ragazzini imbecilli sulla piazza del paese. Fine estate '86, l'ho portata a casa e l'ho chiamata Oscar come il cestista, Oscar Schmidt, duemetriequattro di meraviglia. Per il decennio successivo ho dovuto ripetere decine di volte che no, non era per Lady Oscar, che peraltro avevo guardato.
Oscar faceva le fusa con l'eco perché era denutrita, poi è diventata il giocattolo preferito di mia mamma e delle sue fissazioni. Ha fatto una vita molto protetta, pure troppo, di sicuro è stata meglio di come sarebbe stata non l' avessi tirata fuori da quell'angolo di paura.
Auguri all'Oscar tredicenne e alla sua famiglia di bipedi fedeli e innamorati :)