Il cuore, le pietre e gli abbracci di Pinuccio Sciola
L’ultima volta che ho visto il mio amico Pinuccio Sciola è
stato a dicembre a Cagliari, dove ero stata invitata a parlare del mio libro e
di autismo. Lo avevo sentito al telefono qualche giorno prima per dirgli che mi
sarebbe piaciuto passare un po’ di tempo con lui, a San Sperate, paese dove
viveva e che ha trasformato in un paese-museo. Non lo vedevo da almeno
trent’anni, da quando cioé era venuto a Milano a fare una mostra delle sue
sculture alla Rotonda di via Besana. Prima di allora, lo avevo visto a San
Sperate, quando con i miei genitori e le mie sorelle ero andata in vacanza in
Sardegna.
Quel giorno di dicembre ero seduta su una panchina a parlare con
Giovanni Maria Bellu, che avrebbe presentato il mio libro con me. Non ci eravamo
mai conosciuti prima, e già avevamo seimila cose da dirci, di fretta, sorpresi
tutti e due di avere così tanto in comune. Gli dissi che stavo aspettando un
mio amico, ed era per questo che sembravo un po’ distratta. Poco dopo arrivò
Maria, la bellissima figlia di Pinuccio e Giovanni Maria si alzò a baciarla. “Ma
l’amico che stai aspettando è Pinuccio? Siamo amici da tantissimi anni! Ci
vogliamo bene come fratelli!”. Un’altra cosa bella in comune, ho pensato.
Dopo qualche minuto è arrivato Pinuccio. Lo vidi da lontano
e scattatai in piedi per andargli incontro. Il cuore mi scalpitava come quando
si rivede un grande amore. Ci abbracciammo a lungo, forte. Tutti e due ci siamo
messi quasi subito a piangere. Tra le lacrime, sempre abbracciandomi, mi sussurrò,
piano: “Quanto mi ricordi Beppe!” Beppe, mio papà e suo grande amico, era la
colla che ci univa, era il trait d’union
fra noi due. Era lì, il suo Beppe. Era in quell’abbraccio che Pinuccio ha dato
a me per darlo un po’ anche a lui.
Velocemente si diffuse attorno a noi la voce che era
arrivato il Maestro, così lo chiamano in Sardegna. Erano tutti emozionati, e mi
chiedevano sbalorditi: “Ma è un tuo amico?”, stupiti che fosse lì. Era come se
fosse arrivato, d’un tratto e senza preavviso, Sting, per dire: tutti volevano
stringergli la mano, salutarlo, parlargli, poterlo solo guardare per un attimo,
ringraziarlo per essere lì, con noi. Per me, invece, Pinuccio era Pinuccio e basta. Sapevo che
era una persona importante, ma non avevo considerato mai l’enormità della sua
popolarità, anche perché a lui non importava niente di essere famoso. Ascoltò
attentamente le parole che io e Giovanni Maria condividemmo sulle difficoltà di
avere un figlio autistico, e sulle inaspettate gioie e arricchimenti che si
accavallano con i momenti di desolazione e solitudine.
Prima di andare, Pinuccio mi annunciò che il giorno dopo mi
avrebbe rapita da lì e mi avrebbe portato a casa sua, come quando ero
piccolina, e avremmo passato la giornata insieme. L’emozione era talmente forte
che non riesco ancora adesso a contenerla dentro delle parole. Straborderebbe
dalle lettere, dalle virgole. Non ci sta.
La mattina dopo io e Giovanni Maria ci
incontrammo per colazione e per chiacchierare come due vecchi amici,
condividendo anche alcuni racconti sul nostro caro amico, e
spotaneamente lo invitai a casa di Pinuccio a cena. Sarebbe stato bello
rivederci insieme, tranquilli, a San Sperate. Cosa che facemmo, solo noi,
a scoprirci e riscoprirci a botte di vino e mirto e forchettate di carne cotta
da Pinuccio nel suo grande camino.
Pinuccio mi ha sempre stupito per quanto fosse magico il
contrasto lampante fra la leggerezza e la trasparenza del suo cuore e del suo
sguardo, e la pesantezza e
l’opacità delle pietre che lui sceglieva. Non è un caso che tra tutti quelli
che nei millenni hanno usato la pietra come materiale per creare arte e magia,
lui e solo lui sia riuscito a rendere le pietre trasparenti, e a farle anche cantare
con il suono leggero dei violini. Quando, quel pomeriggio di dicembre, mi portò nel suo giardino museo, mi disse, ancora incredulo: “Ma ti rendi conto che nessuno si era mai
accorto che le pietre hanno una voce, hanno un’anima?”
Alle pietre, che noi
siamo abituati a calpestare quando camminiamo senza neanche notarle, Pinuccio non ha
dato solo trasparenza e voce, ma soprattutto ha dato profonda dignità. Ricordo
che quando venne a fare la mostra a Milano, una donna che passava di lì disse:
“Ma cosa sono ‘sti sassi?”, e lui rispose: “Non sono sassi, signora. Sono
pietre”.
Accese, quella sera solo nostra, un enorme falò tra le sue pietre sonore, tra la sua
arte, creando una suggestione nell’aria che non rivivrò più, ma che non
dimenticherò mai.
Buon viaggio, Pinuccio.
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