Memorie
Quando stavamo a Brooklyn, abitavamo in un
quartiere abbastanza povero che si chiama Prospect Lefferts Gardens, per lo più
popolato da persone di provenienza caraibica. Il tratto di Flatbush Avenue del
quartiere offriva quasi esclusivamente prodotti delle isole, o negozi per
parrucche con treccine, o posti abbastanza tristi per fare manicure e pedicure a
poco prezzo. Non c'era molto di quello che di solito compro io, per cui spesso
per fare la spesa o anche solo un po' di shopping, andavo a Park Slope, la zona
di fianco alla nostra, dall'altra parte del parco, che invece è abitata
soprattutto da bianchi liberals, cioé ricchi ma trendy.
La nostra banca invece era in un'altra zona ancora, che
si chiama Crown Heights, popolata per metà da gente caraibica e per metà da ebrei
hassidici, quelli con le treccine vestiti sempre di nero, per dire. Era strano
e splendido passare da quartiere a quartiere e incontrare culture così diverse.
È una cosa che qui a Cambridge mi manca moltissimo.
Una volta aspettavo il mio turno in banca e era
inverno. Davanti a me c'era una donna anziana, con un cappotto color cammello e
un foulard in testa. Siccome la fila era lenta, la osservai a lungo: era più
bassa di me di un bel dieci centimetri, aveva ai piedi un paio di scarpe di
pelle nera, con le stringhe. Il foulard, scuro, era allacciato sotto il mento e
coprirva tutti i capelli tranne qualche ciuffo a lato, bianco. Il cappotto
arrivava a metà polpaccio, Non aveva i guanti, questo me lo ricordo bene,
perché pensai che se avessi preso le sue mani nelle mie, le avrei trovate gelate.
Poi fu il suo turno, e alzò il braccio sinistro
per dare un foglio compilato alla cassiera della banca e la manica del
cappotto, che era un po' corta, si alzò abbastanza per mostrare gli ultimi due
numeri del tatuaggio che le avevano fatto anni fa i nazisti.
Ricordo di aver provato un brivido dentro il cuore
e di aver subito sentito il peso di una vita, quella davanti a me, piena di
storia e di sofferenza e di umiliazione e di terrore. Si girò lentamente e mi
colse a guardare il suo polso, me ne vergognai e abbassai gli occhi. Lei non se ne vergognava. Sembrava portarsi dietro
quei numeri come a dire che la memoria deve essere indelebile, perché lo è il
dolore della perdita.
Poi, a passi lenti, se ne andò e fu il mio turno.
Non accetterò mai quello che è stato e non perdonerò mai i colpevoli e ancora meno quelli che in quei tempi hanno fatto finta di non capire. Nessuno dimentichi. Mai.
RispondiEliminaBellissimo post, grazie!
RispondiEliminaGrazie Marina.
RispondiElimina