Malinconie in treno
La mia vita a volte sembra un po' come il viaggio
in treno Bologna-Firenze: fuori un paesaggio della madoona, di quelli dei
quadri rinascimentali con le colline nella nebbiolina, i cascinali antichi, i
campi infiniti, che però non puoi vedere per via che ogni due minuti c'è una
galleria. (Non c'entra comunque assolutamente con quello che voglio scrivere, però, dai, è un inizio
figo, no?).
Ieri sera sono arrivata al teatro di Bologna con
mia mamma, le mie sorelle e mia figlia di dieci anni. Abbiamo incontrato un po' di amici, quelle
sere che arrivi e saluti entusiasta, abbracci persone che non vedi da tempo,
vai a cercare il posto e fai due battute prima che abbassino le luci di sala.
Come se fossi andata a vedere uno spettacolo qualunque. Come se tutta quella
cosa non toccasse me. Non avevo messo in conto l'impatto, come sempre
d'altronde. A volte forse è meglio così. Ci si salvaguardia dalle mattine dopo come
questa, gonfie di malinconia.
Vabbè, si spengono le luci in sala e mi vengono scaraventate in faccia a una velocità cosmica delle parole scritte centomila
anni fa da mio padre, miste a quelle scritte da me su di lui. Lo chiamano Beppe
Viola, dicono che era uno di quelli che ha fatto e detto robe che ancora
adesso sono importanti. Dicono che Beppe Viola era geniale, che aveva capito
un mondo che invece noi no, che faceva parte di un periodo romanticizzato da
tutti questi anni che ci separano da allora. Lo dicono usando anche aneddoti
che avevo raccontato su di lui e che in famiglia sono saputi e risaputi, e invece per chi li sente per la
prima volta fanno ancora molto ridere: il Giuliano e il tustin bel farcitin, i cavalli, mia nonna Cicchinina, la
Rai, e poi Jannacci, il Derby e poi infine il Giorgio, Magazine. Tutti in
sala giù a ridere per tutte queste storie di vita balorda vissuta da Beppe
Viola. Sul palco si dipinge perfettamente quel mondo lì, quel giornalista lì.
Io invece davanti a me vedo il mio papà. Cioé,
neanche: vedo la sedia vuota, vedo il lettone mezzo vuoto. Vedo la rosa rossa
che mia mamma gli porta tutte le volte che va al cimitero, tre euro l'una. Vedo
i cassetti pieni di suoi vestiti che per anni sono rimasti lì, lavati e stirati nel primo cassetto in camera loro, nella speranza che fosse tutto un brutto
sogno.Vedo le foto ormai sbiadite di un mondo che non c'è quasi più. Vedo mia
mamma, di fianco a me, che fa finta di sorridere ma che anche lei chissà che
immagini le passano davanti agli occhi. "Guarda che sento quello a cui
stai pensando", le dico in un orecchio. Lei mi guarda e mi dà una carezza.
È un mondo ormai talmente lontano che mia figlia,
seduta scomposta e annoiata alla mia sinistra, non capisce una parola di quello
che viene detto, se non le parole Beppe, Franca, e poi Marina Viola e un
appaluso, e poi via Sismondi, che sa che è la via in cui vive la nonna. Lei parla
inglese, vive a Boston. Cosa ne capisce di quel periodo milanese là. Che ne sa
di un nonno balordo, circondato da gente balorda, che trentacinque anni fa ha
distrutto delle barriere. Macché balordo, macché barriere: lei vorrebbe un
nonno, altro che Quelli che, altro che Vincenzina.
Massì, poi. Sono ferite che ormai dovrebbero
essersi rimarginate da anni. Del nonno, di papà rimane solo un guscio che tanto
piace alla gente, vestito da giornalista sportivo diverso. Siamo anche
fortunate: c'è chi muore e poi basta, senza lasciare neanche un involucro
seppur vuoto. Almeno di lui abbiamo queste serate nei teatri, abbiamo una
figura concreta, amata e stranamente non dimenticata.
Dopo lo spettacolo e mandando giù lo tzunami emotivo che
ho dentro, si va tutti a mangiare in un ristorantino aperto da poco con Giorgio
Comaschi e Alessandro Pilloni, i due bravissimi protagonisti di questo viaggio
in quel mondo là. Si parla, si beve, si ride. Poi si rimane in pochi, a parlare
con un po' più di intimità, gestita male dal vino e dai grappini che fanno il
giro del tavolo. E poi gli abbracci, le promesse di sentirci presto, i
"siete stati bravissimi".
Poi si va su a casa, ci si lava i denti cercando
di non disturbare quelli che già dormono da ore, ci si spoglia, ci si mette
sotto le coperte e si ha anche la presunzione di pensare di dormire. Come se
non li conoscessi quei conti che devo fare con tutta questa roba qui. Sto lì,
ad ascoltare i rumori della strada. Gioco con le ombre che fanno le mie mani
sul muro di fianco a me. Tra tre ore mi sveglio, anzi mi alzo e parto, vado via,
ad intruffolarmi nelle gallerie che ci sono tra Bologna e Roma. Sul treno ringrazio la
madonna e tutti santi per la musica, che mi urla nelle orecchie e quasi non mi
fa pensare. Il treno entra e esce dalle gallerie, che si fanno meno numerose.
Il cielo si è schiarito, le nuvole sono alte e la campagna scorre dal
finestrino.
Tocca andare avanti. Tocca scrollarsi di dosso questa malinconia.
Ed è subito Roma Termini.
bellissimo. sei proprio sua figlia
RispondiEliminaHo visto un breve, recente e simpatico filmato di Comaschi, che parla di tuo padre, indimenticabile Beppe.
RispondiEliminaPoi ho cercato un tuo filmato e ho visto la presentazione del tuo libro e "Marina Viola, Luca, Dan, il resto della famiglia e le elezioni americane".
Ora ti conosco un po' meglio e sono contenta.
Cristiana