Quattro anni senza
Non sono mai stata brava a lasciar morire le
persone a cui voglio bene. Non ce la faccio a dire che è arrivato il
momento di lasciarli andare via. E forse che ne so, non è neanche necessario
farlo, questo sforzo di tirare avanti senza niente di loro.
Ma ci sono delle morti più difficili delle
altre, e hanno a che fare, tanto per cambiare, con quella di mio padre. Era
giovanissimo quando è morto, e non aveva certo pensato a cosa lasciare a noi in
caso gli fosse venuto un ictus in ufficio, anche perché quello che aveva in più
lo spendeva in scommesse o in altre frivolezze del genere. Ma aveva costruito
attorno a sé un mondo molto particolare, fatto di tanti tipi di persone,
soprattutto maschi, che aveva racimolato durante i suoi pochissimi anni di
vita: c’erano “quelli della Rai”, “quelli del bar”, “quelli dell’ippodromo”, “quelli
dell’infanzia”, “quelli di Magazine”. Sono come diverse cellule che insieme
creano un tessuto grande abbastanza da farci un bellissimo vestito.
E ci ha lasciato quello: un vestito cucito da
lui e tenuto insieme dai ricordi, dalle risate, dalla malinconia. Un vestito
che io le sorelle e mia mamma teniamo sulle spalle e che ci ha scaldato per
tanto tempo.
Ma ormai dopo tutti questi anni è sgualcito, e
si sta un po’ sfilacciando: tanti degli amici di mio papà non ci sono più, e
ogni volta che se ne va via uno è un altro buco che non si può più ricucire.
Alla fine rimarremo con due o tre bottoni e poco altro. È inevitabile. È una
generazione che poco a poco si sta spegnendo.
Ecco, queste per me sono le morti difficili,
quelle di qualcuno di tutti quei mondi lì, che ci tocca poi piangere ancora,
ravanare dentro quella ferita mai ricucita che è la morte di un genitore, per
tutti e per sempre.
Enzo aveva uno spazio grande di quel vestito.
Dopo la morte di mio padre non era certamente una delle persone che
frequentavamo, anzi: malgrado vivessimo vicino, ci incrociavamo raramente.
Certo, baci e abbracci ogni volta, ma pochissime sono state le occasioni in cui
siamo andati a bere un caffè insieme, o ci siamo seduti a chiacchierare del più
e del meno.
Però per mio padre Enzo è stato un fratello, e
la stessa cosa la provava lui per mio papà. C’era tra di loro una sintonia
rara, un modo identico di vedere la vita, uno strato di follia che li univa e
li rendeva irresistibili e genialoidi.
Tanto si è detto su mio padre e molto di più
si è detto su Enzo, ma vale la pena ripeterlo in questo giorno in cui ci tocca
ricordarci che sono già quattro anni che è morto: è bello sapere che si sono
voluti molto bene e che hanno riso tantissimo, e che hanno avuto voglia di fare
delle cose insieme che invece sono ancora qui con noi.
Ecco.
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