Cambridge è una bella città









Dopo una notte in bianco e con la testa piena di pensieri, stamattina mi sono svegliata che la casa era vuota. San Dan aveva fatto tutto lui: aveva preparato Luca, aiutato Emma, fatto i letti e pulito la cucina. Mi sembrava di essere quasi in un sogno quando sono scesa e la casa era vuota, anzi fin troppo vuota, da quando una settimana fa è morto Oscar. La gattina Margot mi è subito venuta incontro e abbiamo fatto colazione insieme. Poi mi sono messa un paio di pantaloni della tuta, le scarpe da ginnastica, ho preso cuffiette e le chiavi di casa e sono uscita per la mia passeggiata quotidiana, quella senza la quale mi viene un’ansia che potrei morire. Ho cercato Bonnie Raitt su Spotify e via. 

Di solito vado verso il fiume, perché c’è una bella pista ciclabile su cui si possono fare delle belle passeggiate: arrivo fino a Harvard, una ventina di minuti, e poi torno indietro. Ma oggi volevo fare un altro giro e invece che a destra sono andata a sinistra. Mi sono subito venuti in mente i discorsi che io e Dan facciamo da qualche giorno a questa parte, e cioè che dopo dieci anni di Cambridge, ci siamo un po’ stufati, soprattutto Dan, con il suo lavoro stressante che lo tiene sempre troppo preso. Dice che gli piacerebbe mollare tutto e andare a vivere in una bella casa grande di campagna, dove la vita è semplice e si è circondati da paesaggi bucolici e silenzio, ma vicino ai nostri amici storici, a cui vogliamo bene ormai da una trentina d'anni. Io non sono mai stata una persona molto propensa a vivere in campagna, il ritmo della città e la confusione invece che infastidirmi mi danno energia. Ma forse ha ragione lui: è quasi liberatorio dire io basta.

Pensavo a tutte queste cose mentre passeggiavo per le strade strette e ricoperte di mattoni rossi della mia zona, Cambdrigeport. Guardavo le case di legno, tutte belle e immense, di tanti colori diversi. La più bella, mi dico, è quella colorata di blu acceso sulla Chestnut Street, ma poi più avanti ne vedo una verde e rossa, che sembra ancora più bella. Giro l’angolo e mi trovo davanti a un piccolo parco finalmente fiorito e quasi questa quiete e questa bellezza mi commuovono. Giro a destra e imbocco Pearl street, che invece è più movimentata. Anche qui le case sono grandi, impeccabili. 

Mentre Bonnie Raitt canta il suo blues mi incammino verso il BU Bridge, uno dei ponti che collega Cambridge a Boston. Dall’altra parte del ponte inizia la vera metropoli: autobus, traffico, gente che cammina di fretta, grattacieli. In un quarto d’ora di cammino si passa dalla tranquillità di Cambridge a un mondo frenetico, cittadino, famigliare. Mi fermo a metà ponte, come faccio ogni volta. Da lì, secondo me, c’è la più bella vista dello skyline di Boston. Sotto di me passa il fiume Charles e c'è una ferrovia vecchia e arrugginita, piena di graffiti e frequentata soprattutto da un centinaio di oche, che la occupano da qualche anno. Faccio una fotografia del Prudential Center, un grattacielo famoso di Boston, che stamattina è per metà coperto di nebbia, ma che è molto bello anche così: sembra che si voglia nascondere tra le nuvole, penso. Poi mi dico che è uno dei pensieri più banali che mi siano venuti in mente stamattina, e continuo la mia marcia verso la fine del ponte. Arrivo a Boston e sono circondata da studenti della Boston University che corrono da un palazzo all’altro per andare a lezione. Attorno a loro mi sento vecchissima, per cui attraverso la strada con loro ma faccio marcia indietro e riattraverso il ponte dall'altra parte del marciapiede. 

Noto, guardandomi attorno, che ci sono due tipi di persone che la mattina decidono di uscire in tuta: le ragazze strafighe, dai ventitré anni in giù che corrono senza sudare mai e cosa vanno a correre che già mi pesano trentasette chili. Quelle manco mi guardano. Io invece sì, me le guardo tutte, con un’invidia imbarazzante e anche con un pizzico di attrazione fisica, tipica di noi persone che pensiamo poco al gender e più alla bellezza universale. Poi ci sono quelle un po’ grassottelle, come me. Loro, come me, camminano, non corrono, ma sudano come delle bestie. Sperano, come me, di recuperare quella freschezza di vent’anni fa: una corsa inutile e deprimente contro il tempo che invece passa imperterrito, inarrestabile e sempre più velocemente. E loro non hanno ventitré anni, ne hanno una quarantina, come me. Mentre ci passiamo di fianco ci scambiamo un accenno appena impercettibile, quel movimento su e giù con la testa, come dire ah anche tu qui? come fanno i motociclisti al semaforo. Io a volte abbasso gli occhi perché il mio messaggio sarebbe: “Ma chi ti conosce? Io non sono mica come te!”, ma invece le conosco bene, quelle signore, che sono esattamente come me in tutto e per tutto. Poi a correre ci sono anche i maschi, ma di loro non mi occupo quasi mai perché sono come delle creature assolutamente irraggiungibili ormai da anni.

Mi ritrovo sulla pista ciclabile di fianco al fiume. Da lontano vedo la scuola di Emma, che stamattina non ho neanche salutato e mi si aggiunge a quella che già ho un po’ più di tristezza. Mi viene anche in mente che Bonnie Raitt mi ha un po’ rotto le palle e che adesso tocca a Stevie Wonder, che dopo Adele e Ella Fitzgerald, è uno dei cantanti preferiti di Emma. In suo onore metto Sir Duke, che lei ha imparato a memoria e continua a dirmi che dovrei impararla anche io. Alzo il volume e torno verso casa.

Se mai dovessimo andare a vivere in campagna, credo che potrei imparare ad apprezzarla e che ne sarò contenta, ma mi mancherà questa città, che non sono mai riuscita a apprezzare fino in fondo, penso mentre apro la porta di casa. Mi siedo e mi accendo una sigaretta. Non c’è niente come fare un po’ di sport e poi fumare.

Chiamo mia mamma ma è occupato.






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