James Taylor e Timberland






Oggi si va, niente scuse. Sono giorni che lo dico, ma oggi non voglio sentir palle: bisogna comprare un nuovo paio di scarpe a Luca, che quelle che ha sono vecchie, e sono ormai mesi che si mastica i lacci. Oggi si va, punto e basta. Dan cerca di trovare scuse, ma lo distruggo con uno sguardo dietro la tazza di Illy. 

Lo so, andare con Luca a fare shopping di solito è un incubo, ma prima o poi bisogna pur farlo. Dan accenna a una danza goffa per sdrammatizzare. Ok, ok, andiamo…


La parte più difficile è convincere Luca a lasciare il suo Ipad, il suo computer, il suo letto, la sua stanza, il suo mondo per uscire e affrontare un mondo che lui non capisce per fare una roba di cui a lui non gliene frega niente, al freddo del trenta di dicembre in New England. Lui vivrebbe sul letto, ciucciandosi la sua calza: come un disk jockey perfetto, da una parte ascolta la musica della colonna sonora del film Oh Brother Where Art Thou, dei fratelli Cohen, e dall’altra ha il video su Youtube di James Taylor: un concerto fine anni Novanta, quando ancora JT aveva ancora i capelli, al Beacon Theater di New York. Luca ascolta solo una parte di una canzone, e non so se quello che gli piace è la musica o l’immagine. La telecamera è puntata sulle dita della mano sinistra di James che schiaccia le corde della chitarra. Povero James: Luca non gliela fa mai finire, quella canzone…avanti e indietro, avanti e indietro con il mouse, per arrivare sempre sullo stesso punto.

Per convincere Luca a lasciare tutto questo bendiddio, bisogna aver perfezionato ogni mossa e aver fatti propri tutti gli elementi necessari, e soprattutto presentarli a lui in modo maestrale: come in una reazione chimica, bisogna sempre trovare quella perfetta dose di pazienza, dolcezza e compromesso che gli fa dire, ok, vengo.

Ma con calma.

Poi bisogna anche occuparsi delle cose normali, che fanno famiglie normali, quelle con dei figli normali, come sono le due sorelle di Luca, Sofia e Emma: colazioni, docce, dar da mangiare ai cani (due), far la cucina, i letti, ricordarsi di mettere la pattumiera in bagno che i cani (due) sennò la portano sui letti . Dove sono le mie scarpe? Non trovo le chiavi. Squilla il telefono. Non riesco a prendere la giacca, è troppo in alto. Non ti sei lavata i denti? Togliti la giacca e vai. Cani, giù dal divano! Si arrivo! Non fate uscire i cani! Dai, Luca, muoviti! Hai preso le cuffie per Luca? Emma, hai messo i guanti? Chissenefrega, io esco senza giacca…

Oggi io e Dan abbiamo deciso di usare tutte e due le macchine, perché dopo lo shopping di scarpe (e pantaloni, che Luca cresce a vista d’occhio), io proseguo per il supermercato, visto che domani sera che è Capodanno, abbiamo qui metà di mille e in frigo c’è soltanto un po’ di latte (scaduto), mezzo limone, ormai secco e un po’ di insalata ormai triste.

Dan chiede, chi viene in macchina con me? E le ragazze in coro urlano IO! Luca, che invece non parla, viene assegnato a me. Mentre io finisco le ultime cose, Dan lo accompagna in macchina e lo apposta nel sedile di dietro. Finalmente arrivo, e prima di entrare in macchina riapposto mister Shmoo (così viene chiamato Luca da sempre) nel sedile davanti, di fianco a me. Luca, con la sua maglietta mezza ciucciata, la bocca ancora un po’ sporca di colazione, la giacca rossa malmessa che scopre la spalla sinistra, e con il suo Ipad (compromesso di oggi), che tiene come un vassoio, si fa spostare, apparentemente indifferente, di fianco a me. Gli allaccio la cintura, e lui crede che lo voglia abbracciare, e ride.

Prima di partire, tiro fuori dalla mia borsa il mio Ipod, che Luca lo sa che quando siamo io e lui si ascolta James Taylor. Partiamo, e prima di schiacciare play, mi chiede di cantargli la sua canzone preferita: Good morning, good morning, good morning to you…”More, more!”, mi dice, ridendo.

Alla terza volta che intono la stessa canzone da anni, siamo già alla fine della strada e metto la freccia per girare a sinistra. Allo stop, tra la mia musica cerco James Taylor. Mr Shmoo ha le cuffie, e sta ascoltando Oh Brother Where Art Thou, ma io so che tra un secondo abbassa il volume con un gesto velocissimo per ascoltare le nostre canzoni. Parte la prima, a massimo volume: Fire and Rain, uno dei nostri pezzi forti. Io ovviamente canto, lui ascolta un po’ e poi torna alle sue cuffie. Gli accarezzo la spalla sinistra.

Poi arriva quella canzone lì. Quella che ascoltavamo tredici anni fa, quando eravamo all’ospedale, reparto neurologia infantile. Quella che gli cantavo quando lui, ormai esausto dalle urla, perdeva le sue battaglie per cercare di liberarsi dai fili colorati che gli avevano attaccato alla testa e scappare, anche se lui a due anni non camminava ancora. La battaglia la perdeva ogni volta, ma solo perché i sedativi che gli davano erano troppo forti per un bambino di due anni. Gliela sussurravo, quella canzone lì, mentre dondolavo sulla sedia a dondolo e lo tenevo in braccio, e lui mi gurdava con gli occhi a mezz’asta, ormai drogato. Gli sussurravo, senza trattenere le mie lacrime, che this old world must still be spinning round, and I still love you, so close your eyes, you can close your eyes, it’s all right.

Ogni volta che James Taylor intona quella canzone lì, a me mi viene sempre quel rigurgito di dolore, quell’onda di ricordi che vorrei non avere, quel panico che sembra ormai lontanissimo, ma basta una canzone di merda per far tornare su tutto. Insomma mi è venuta addosso una roba tipo panico, e, come quelle mille volte all’ospedale, ho cominciato a piangere. Luca, che è figo, ma pur sempre autistico, si è voltato verso di me, ma per un attimo soltanto, e ha rubato uno sguardo, uno dei suoi: quelli con la coda dell’occhio, che sembra che non ti guarda, come fanno quelli come lui. Ha mollato il suo Ipad, lo ha appoggiato sulle ginocchia, ha preso la mia mano dal volante, me l’ha stretta forte, e si è messo a ridere: come se mi prendesse per il culo, come se capisse, come se si ricordasse, come dire dai mamma che palle, sempre a piangere.

Poi anche la musica è finita, e io ho rimesso tutti quei ricordi di merda via, per la prossima volta. Luca non ha mollato la mano fino a quando ho trovato parcheggio.

Nel negozio c’era tanta gente, che ignara guardava la merce senza occuparsi di chi stava attorno, fino a quando è entrato Luca, e molti si sono girati a osservare più attentamente questo ragazzo alto, biondo, con gli occhiali (sporchi) e con il suo Ipad tenuto come un vassoio. Io li fulmino tutti, porto Mister Shmoo su una panchina di legno nel mezzo del negozio, lo faccio sedere. Il signore di fianco a lui ci guarda e si alza veloce. Io lascio Luca solo per un istante, e velocemente cerco un paio di scarpe che potrebbero andargli bene. Questa volta senza lacci. Lui maneggia l’Ipad, sempre visibilmente ignaro. Almeno non si è buttato per terra dicendo “to the car, to the car”. Per ora andiamo benone. Gli metto le scarpe nuove e gli dico, Stand up, Shmoo. Lui, con la sua calma che solo lui, si alza, e va. Cerca di uscire dal negozio. Ottimo. Dan paga, io e lui aspettiamo fuori.

Le ragazze vogliono andare in un altro negozio, così ci incamminiamo, noi cinque con il nostro strano modo di essere noi cinque. Luca mi prende per il collo e camminiamo come fanno gli innamorati. Sorride, come sempre. Mi stupisce la sua felicità senza filtro che va ben oltre gli sguardi imbarazzati di chi ci incrocia e si tocca le palle per non avere un figlio così, senza sapere che le palle me le tocco io nella speranza che sia sempre csì bello.
Le Timberland nuove gli stanno da dio.

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