Il dio americano
La radio annuncia che il ventiquattro di marzo a Washington
si sono radunati ventimila atei per far sentire la loro presenza e per
affermare i loro diritti. Il commentatore racconta che, diversamente da dieci
anni fa, quando la gran parte dei dimostranti era formata da ultra quarantenni
bianchi, quest’anno la presenza di persone più giovani e neri sembra
significare un successo da parte degli organizzatori, visto che la maggior
parte della popolazione americana nera è statisticamente religiosa.
Non è facile fare il “coming out” dell’ateismo: c’è chi
perde il lavoro, gli amici, la casa in affitto. Qui chi non crede in Dio e lo
dice apertamente viene stigmatizzato (per usare un verbo cristiano). Dice il
commentatore della radio che gli Stati Uniti sono tra le poche nazioni al mondo
dove è possibile fare una manifestazione del genere (dichiarazione a dir poco
discutibile), e allo stesso momento ci ricorda della difficoltà di ammettere il
proprio ateismo.
Paese strano. Non riesco neanche a immaginarmi una
manifestazione in Italia sui diritti degli atei, forse perché in Italia non
gliene frega a nessuno sei sei ateo o no; di certo non perdi lavoro o l’affitto.
In Italia la religione è per lo più un fatto personale, non una presa di
posizione.
Diventa invece un discorso importante in una nazione come
quella americana, ossessionata dalla religione, che ormai è diventata il
partito politico per eccellenza, la lobby più potente. Di religione qui se ne
parla in continuazione: si comincia alla mattina in tutte le scuole pubbliche,
dove i ragazzini, dall’asilo sino alla quinta superiore, (cioè tutti e tre i
miei figli) si alzano in piedi, mettono la mano sul cuore, e ascoltano il
preside recitare The Pledge of Allegiance,
una specie di preghiera alla bandiera e alla patria che dice:
"I pledge allegiance to the flag of the United States of America, and to the republic for
which it stands, one nation under God, indivisible, with liberty and justice
for all."
Dopo di ché c’è anche un minuto di silenzio, per chi vuole pregare, credo.
Non so.
In italiano fa: Giuro fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America,
e alla repubblica di cui è
simbolo: una nazione sotto Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per
tutti.
Noi avevamo l’Ave Maria, loro il giuramento. E Dio ci entra bene in
questo quadretto nazionalistico, tanto da confonderlo con il patriottismo:
ricordo che mia figlia Sofia, quando era piccola, confondeva la bandiera
americana con il crocefisso. E mia figlia Emma, che ha solo cinque anni, tornò
a casa gasatissima il giorno che la maestra le annunciò che sarebbe toccato a
lei, il giorno dopo, leggere la preghiera al microfono. Andai dalla maestra il
giorno dopo per dirle che non ero d’accordo e che forse Emma era troppo piccola
per giurare fedeltà, ma lei mi disse che ai bambini piace tanto parlare al
microfono….Se lo dice Ms. Connelly… Mi ricordo anche di quando insegnavo in un
asilo: un bimbo stava facendo qualcosa di strano e io gli dissi, “ What the
hell are you doing,?”, che in italiano sarebbe un bel che diavolo fai. Ma in
America, parlare di hell, cioè dell’inferno, è come smadonnare. Mi ritrovai
infatti davanti al preside, che mi ricordò in modo severo che questo modo di
parlare non è tollerato.
La religione si annusa anche sulle monete e sulle banconote, dove c’è
scritto in God we trust; arriva attraverso i cartoni delle pizze, gli adesivi
delle macchine, i cartelloni in autostrada. God bless America si legge
dappertutto. Poi più si va al sud e più si intensifica, pare.
E poi ci sono i mille dibattiti: quelli politici, scientifici,
pedagogici, di istruzione pubblica e privata, di razza, stato sociale, sesso
(molto: i contraccettivi sono ancora soggetto di grandi discussioni da queste
parti) e chi più ne ha ne metta. Ci sono alcuni stati americani, per esempio,
che hanno lottato e ottenuto di poter insegnare a scuola la “teoria” della
creazione, da studiare insieme a quella dell’evoluzione darwiniana, così da
poter dare agli studenti la possibilità di scegliere quale secondo loro è la
più corretta. Altro che CL!
Non è la mia opinione: secondo un’inchiesta fatta recentemente, il 95%
degli americani voterebbe un cattolico come presidente (finora sono stati tutti
protestanti, tranne JFK), il 94% un nero, e solo il 45% un ateo. Vuol dire che
più della metà degli americani non voterebbero mai un ateo, indipendentemente
dalla sua capacità di governare.
Dunque in quest’atmosfera bigotta, la manifestazione indetta dagli atei
ha un senso sociale e politico importante. E buon per loro: prima di loro a
Washington avevano marciato i neri, le femministe, i pacifisti, i gay. Adesso
tocca a una nuova voce di minoranze, e a loro tutto il rispetto, ci mancherebbe
altro.
Non riesco però a fare a meno di catalogare questo movimento , malgrado
il mio totale appoggio per la categoria, tra i mille controsensi tipici di
questa parte dell’oceano, dove convive tutto e il contrario di tutto, dove il
controsenso diventa norma: si trova il fanatico religioso e la manifestazione
atea; i fast food e le diete e l’aerobica; i movimenti pacifisti del
sessantotto e le peggiori guerre del secolo, l’integrazione e il razzismo,
l’emancipazione femminista e il soffitto di vetro, Whitney Spears e Chet Baker,
Walt Disney e Betty Friedan, Berkley e Huston, Obama e Santorum. La lista è
pressoché infinita.
E, per chi ogni volta che vengo a Milano mi chiede di
portargli qualcosa da qui: l’intrinseco
controsenso del vestirsi male e dei Levi’s e le Timberland.
Strana quest’America. Che Dio ce ne scampi.
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