Ape apina


 Dicevo a Giacomo, mio nipote quattordicenne, che ormai ho vissuto tanti anni in Italia quanti negli Stati Uniti. Eppure porca l’oca, ogni volta che vado a Milano riesco sempre ad intruffolarmi nel posto che ho lasciato anni fa. Rientro con una semplicità spaventosa in tutte le dinamiche familiari, quelle di amicizia, quelle della milanese che va a far shopping in centro, ma poi preferisce il mercato del mercoledì.
Questa volta anche più del solito. Sono stata, come sempre, in via Sismondi, con mia mamma, e entrando nel portone sono anche rientrata immediatamente nella parte della figlia, che però è come se fosse rimasta intatta a quando, più di vent’anni fa, ho deciso di venir via. Il mio ruolo lì, in via Sismondi, è ancora quello di una ventenne, che vorrebbe essere matura ma poi la mamma le fa da rete di protezione. Mi sono sentita dire di non andare fuori senza calze che fa freddo; che la giacca jeans è troppo leggera; come fai ad andare in giro a piedi nudi: sei proprio come tuo padre. Mi sono sentita chiedere a che ora torni, mi raccomando compra il biglietto del tram che fanno le multe, dai mangia ancora un po’, o di non mangiare il pane prima di cena.
Solo che io sono  arrivata con la mia seconda figlia, di dodici anni, che non parla italiano, e ho lasciato gli altri due dall’altra parte dell’oceano. Voglio dire, la situazione è ben diversa da vent’anni fa. Eppure fa piacere rientrare, come fanno le api, nella propria cella dell’alveare. Prima di tutto, mi fa sentire giovane, che a quarantatre anni è un bel sentirsi. E poi, come allora, mi da l’illusione di essere ancora protetta, come se il passaggio del rapporto genitori figli, cioè quando i figli si occupano dei genitori e non viceversa, non sia ancora avvenuto, e neanche lontanamente preso in cosiderazione.
Poi, per rafforzare la sensazione dei vent’anni, ho rivisto l’Angela Guma, amica storica di quando ero ragazza. Non la vedevo da anni, e non nascondo una certa agitazione nel mettermi il rossetto prima di uscire per incontrarla. Poi l’ho vista, assolutamente uguale (ma come cazzo fa?), e ugualmente a anni fa, abbiamo subito chiacchierato come quando aspettavamo il 5 per tornare a casa da scuola. A braccetto, ci siamo avviate per le vie di Milano e ce la siamo raccontata su, con una familiarità sorprendente.
Ho rivisto anche Paolo Maifreda, fidanzato storico che con il suo bambino e la sua nuova compagna mi ha portato a mangiare una pizza. Cercavo in lei delle similitudini con me che non ho trovato affatto, ovviamente. Non esageriamo, mi dicevo, mentre facevo la faccia nonchalant di quella che li vede sempre gli ex morosi con moglie e figli: cosa c’è? E anche con lui sono riuscita subito, o quasi, a ritrovare il filo del discorso lasciato anni prima, quando mi riportava a casa in macchina e passavamo due ore a chiacchierare nella sua Jetta bianca senza radio.
Ho visto anche persone “nuove”: Folco, Gino, Cinaski, Danilo e Barbara, Alby. Persone che sono sempre state presenti, ma più amici delle sorelle, e che adesso invece sono anche amici miei. Anche lì grande emozione e grandi chiacchierate. Il Giorgio invece era in Cina.
Poi, come ogni volta che vado a Milano, assaporo i momenti in cui mi siedo alla scrivania di mio padre. Mi metto ben comoda sulla sua sedia, ormai un po’ sgualcita, e comincio a curiosare. Apro i cassetti: mi ricordo che nel secondo a destra teneva la carta per scrivere a macchina e della carta carbone. Me lo ricordo perché noi andavamo a prenderla per farci i nostri disegni, e spesso capitava che lui doveva lavorare e smadonnava perché non c’erano più fogli. Poi apro l’antina, e ogni volta ci trovo le stesse cose, ma ogni volta mi stupisco di quanto questi oggetti ormail lasciati lì da quasi trent’anni possavo evocare momenti precisi della mia infanzia: il suo registratore Sony, che ormai non funziona più, che ho rubato miliardi di volte per ascoltarci le cassette di Dalla; la scatola di scarpe rossa in cui sono custoditi tutti i suoi pass per entrare e uscire da varie gare sportive. Alcuni hanno la foto, una foto sbiadita ma che coglie perfettamente quel’attimo lì che gli han detto, fermo lì un secondo, faccio una foto, e lui preso quasi di sorpresa, si ferma e flash, ecco la foto trent’anni dopo. Alcuni ancora hanno degli appunti scritti velocemente da lui durante una partita, o una gara, o dei numeri di telefono, o degli scarabocchi come faceva spesso lui mentre parlava al telefono. Insomma, ritrovo oggetti che in altre circostanze sarebbero assolutamente insignificanti, ma che hanno negli anni assunto un’importanza a volte esagerata.
Ecco, pensavo alzandomi dalla sedia scricchiolante, tutti questi oggetti sono rimasti fermi in un passato proprio come ci è rimasto il mio ruolo da figlia di vent’anni fa. Mi ci ritrovo, in un certo senso, in questo museo di ruoli, di pass per le olimpiadi, di cassette di Dalla, di non mangiare il pane prima di cena. Andare a Milano è un po’ andare a controllare che sia tutto rimasto come prima: la mia mamma, gli ex fidanzati, le amiche, il mercato, e anche in modo diverso, il mio papà, o quello che rimane di lui.
 E poi sono tornata nella mia altra cella di alveare, anche questa ormai comoda, fatta su misura, anche qui con i miei gesti quotidiani, i miei affetti, i miei spazi, le mie idiosincrasie. Di solito il ritorno per me è sempre duro, ma forse dopo tutti questi anni sono riuscita ad accettare l’idea di avere due spazi ugualmente familiari. Forse ho imparato a smettere di lottare questa lontananza sempre scomoda, sempre piena di malinconie, e sono riuscita ad amare tutte e due le mie vite.
Forse.



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