Amore e anarchia nel New Jersey



Erano gli anni che io e Dan abitavamo in un paesino del New Jersey che si chiamava Highland Park. Ci eravamo andati a vivere dopo che Dan era stato un anno a Milano. Avrebbe dovuto andarci solo lui, a dire il vero, ma io un pomeriggio uggioso seduti al tavolo della cucina di mia madre, gli annunciai che sarei andata anch’io. Cerco sempre di cancellare nella mia mente l’espressione inequivocabile di vuoto e desolazione che gli venne tra una macina del Mulino Bianco e l’altra. Ma transit.

Dan era stato accettato nel programma di dottorato di letteratura italiana alla Rutgers University. Avrebbe studiato come una bestia, e insegnato corsi base di lingua italiana agli studenti di primo anno. Io, con i soldi che avevo ricevuto della liquidazione di mio padre, mi ero iscritta a un piccolo college della zona per studiare grafica pubblicitaria, di cui mi ero appassionata dopo aver lavorato all’agenzia editoriale di Giovannino Fabbri, nel senso di Fabbri editore.

Passai i miei ultimi due mesi meneghini a imballare in tre scatoloni i miei ventiquattro anni di vita, a salutare tutti gli amici, a immaginare dove mi avrebbe potuto portare questa nuova esperienza americana, quest’idea che mi balzò nel cranio solo per poter seguire il mio moroso, che era il più bello del mondo.

Dan partì da Milano qualche settimana prima di me, alla ricerca di una casetta per noi due, e ne trovò una di legno blu e bianca, con davanti una veranda e un giardinetto. Era molto grande ed era quindi divisa in due apprtamenti: i nostri vicini erano una numerosissima famiglia messicana che non parlava inglese e che ci chiamava gringos, che (Dan mi insegnò) è un dispregiativo usato nei paesi di lingua spagnola per descrivere gli americani.

Il padrone di casa si chiamava George Abadiotakis, ed era greco. Malgrado i suoi quarant’anni di vita statunitense, aveva ancora molta difficoltà con la lingua. ‘How is your daughter?”, gli chiedevamo alle otto di sabato mattina, quando veniva a tagliare l’erba, facendo un rumore assordante, e invece noi facevamo finta che andava bene così. “My daughter? He is ok!”, rispondeva, asciugandosi le gocce di sudore dalla fronte.

Oltre ai corsi di lingua, Dan cominciò a insegnarne uno di cinema italiano, in cui istruiva le matricole esponendole alle filosofie del periodo neorealista fino ai giorni nostri, appassionando tutti a botte di De Sica, Rossellini, Antonioni, Fellini e  Wertmuller. Fu durante questo periodo scandito oltre che da studio, anche da grandi feste, viavai di gente e recite teatrali,  che Dan comprò il poster del film “Storia d’amore e anarchia” e lo appese in sala. 

Troneggiò da subito: memorabili le espressioni di Giancarlo Giannini, che, con la forchetta a mezz’aria e la barba di due giorni, sprigiona paura eppure coraggio e quella di lei, Mariangela Melato, che fa la parte della prostituta e gli è attaccata, con la bocca un po’ aperta, colta sicuramente a parlare con una delle sue colleghe col suo accento finto emiliano che di finto non sembra avere niente. I suoi capelli sono biondissimi, corti e mossi; gli occhi pesantemente truccati, come piaceva a lei.

La trama è splendida: racconta di un contadino anarchicoche decide di uccidere Mussolini non per motivi politici, ma perché il suo milgiore amico viene ucciso dai fascisti, e si presenta nel bordello dove lavora la Melato, che finge di essere sua cugina e o aiuta nella sua missione, che ovviamente, come la storia poi ci racconta, non ha alcun successo. I personaggi, pompati come sono tutti quelli che la Wertmuller ci presenta, sono per lo più puttane di tutta Italia, con le loro sottovesti osé che invece di far sexy fa quasi tenerezza, con, i loro accenti, e la loro passionale umanità che disarma. E Giannini, che pare un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutte queste donne, viene accolto quasi come un figlio da tutte queste mamme strane. È un film che mi ha sempre commosso: un inno all’ingenuità e all’umanità che va oltre l’orrore e la distruzione che la guerra semina attorno alla casa di tolleranza e all’Italia.

Quando ho saputo della morte di Mariangela Melato mi è subito saltato in mente il poster che per tanti anni è stato testimone e attento osservatore di risate, litigate, cene. Mi è venuta voglia di ritrovarlo e riappenderlo, come dire che fortunatamente poi i film si guardano e riguardano e non si interessano della vita o della morte di chi ce li ha regalati.


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