In questa giornata inzuppata di morte





In questa giornata inzuppata di morte, mi è venuto in mente di ristudiarmi l’Apologia di Socrate, perché mi ricordavo della sua analisi sulla morte. Racconto brevemente le vicende giudiziarie del filosofo per chi le ha studiate anni fa a scuola, e invece di ascoltare guardava fuori dalla finestra e pensava alla morosa.

Socrate venne accusato di essere ateo e di corrompere i giovani ateniesi con i suoi discorsi controversi. In sua difesa, racconta che un suo amico, tale Cherofonte, un giorno chiese all’oracolo se esistesse persona più sapiente di Socrate. Saputolo, il filosofo cercò di scoprire se fosse vero, e interrogò politici, poeti e arigiani per capire se loro fossero più saggi di lui. Scoprì, facendosi duemila nemici che pensavano che fosse un rompicoglioni e basta, che costoro non erano affatto più sapienti di lui, e che se la tiravano perché credevano di sapere tutto, Socrate, che invece sapeva di non sapere, e sapeva solo questo, concluse che era proprio questo il punto chiave della sapienza. “O uomini, sapientissimo fra di voi è colui che, come Socrate, sa che la propria sapienza è nulla”, gli aveva confermato Dio.

Insomma, in poche parole gli danno la pena di morte. Socrate si chiede cosa sia questa cosa qui che si chiama morte e che tutti gli uomini temono, e sostiene che non si può temere qualcosa che non si conosce. Si deve invece temere l’ingiustizia dei giudici che lo condannano  e che devono continuare a vivere sapendo di essere nel torto (frecciatina contro Mileto, il tipo che lo porta in tribunale).

Socrate (o meglio Platone che scrisse l’Apologia) offre, alla fine della sua esperienza giudiziaria, la sua visione della morte, che vi propongo qui, e che spero sollevi almeno per poco i vostri spiriti, che come il mio oggi sono sotto il mare. Le sue parole sono di un'attualità quasi incomprensibile.


Passo dunque la parola a Socrate:


“Cerchiamo anche per altra via di vedere come c’è molto da sperare che la morte sia un bene. Morire infatti è una delle due cose: o è un precipitare nel nulla, per cui il morto non ha più sentimento di alcuna cosa; o è, secondo che si dice, un transito e una trasmigrazione dell’anima da questo luogo ad un altro.

Se è un precipitare nel nulla e un cessare di ogni sensazione, quasi come un sonno in cui nulla si vede, neppure il sogno, gran guadagno allora è la morte. Se si considera infatti una di quelle notti in cui si è dormito profondamente senza nulla vedere, neanche lo stesso sogno, e si raffronta alle altre notti e giorni della propria vita e si dovesse decidere, dopo aver riflettuto, per stabilire quante notti e giorni si sono vissuti meglio e più dolcemente di quella, immagino che non solo l’uomo comune, ma lo stesso grande Re in persona, troverebbe queste ben poco numerose rispetto alle altre. Se tale dunque è la morte, gran guadagno essa è, perché allora l’infinito tempo è una sola e unica notte.

Se poi la morte è una trasmigrazione da qui ad altro luogo, ed è vero quel che si dice, cioè che là dimorano tutti i morti, qual bene, o giudici, potremmo noi allora aspettarci maggiore di questo? Se, giungendo nell’Ade, dopo esserci liberati da questi qua che si danno il nome di giudici, si troveranno i veri giudici, quelli che anche là giudicano, Minosse, Radamànto, Eaco e Trittolèmo e tutti gli altri semidei che in vita furono giusti, sarebbe forse da disprezzare tale trasmigrazione? O al contrario, non sarebbe essa di tal valore da pagare qualsiasi prezzo pur di potere conversare con Musèo, Orfeo, Esiodo e Omero?

Quanto a me, se tali cose sono vere, preferirei morire mille volte. Oh! quale meravigliosa conversazione sarebbe la mia quando mi imbattessi in Palamede e Aiace il telamonio e in qualche altro dei tempi antichi morto per ingiusto giudizio! Raffronterei la mia sorte alla loro; e ciò penso sarebbe per me motivo di dolcezza. E soprattutto amerei trascorrere il tempo ad esaminare ed interrogare quelli di là, come sono solito esaminare questi di qua, per scoprire chi di loro è sapiente e chi invece crede di esserlo e non lo è affatto. Quanto, infatti, non pagherebbe ciascuno di voi, o giudici, per interrogare colui che guidò l’esercito contro Troia, o Ulisse, o Sisifo, o tanti altri uomini e donne che potrei nominare? Quale inesprimibile beatitudine sarebbe parlare con loro, vivere in loro compagnia, esaminarli! Non avverrebbe di certo, a causa di codesto esame, che quelli di là mi uccidessero, poiché oltre ad essere per molte ragioni più felici di noi, sono ormai immortali per tutto il restante tempo, se è vero ciò che si dice.

E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere nulla di male, nè da vivo nè da morto, e che gli Dei si prenderanno cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare.

Tuttavia io li prego ancora di questo: quando i miei figlioli saranno grandi, castigateli, o Ateniesi, tormentateli come io ho tormentato voi se vi sembrano di avere più cura del denaro o d’altro piuttosto che della virtù; e se mostrano di essere qualche cosa senza valere nulla, svergognateli come ho fatto io con voi per ciò che non curano quello che conviene curare e credono di valere quando non valgono nulla. Se farete ciò, avremo avuto da voi ciò che era giusto avere, io e i miei figli.

Ma vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, occulto è a ognuno, tranne che a Dio.”



Amen.

Per la versione completa dell’Apologia, vi invito ad andare qui:



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