Mammografia in un giorno caldo e atlantico








Stamattina mi sono alzata ma ero ancora stanca: ieri sera abbiamo fatto tardi, e come se non bastasse, quando siamo rientrati, invece di andare a letto mi sono messa a vedere dei video di De Gregori su youtube e ho fatto le due.

Sono scesa in cucina e mi sono accorta di essermi persa competamente la preparazione dei ragazzi per la scuola: di loro non era rimasto che un piatto sporco sul tavolo e mezzo bicchiere di latte non finito. Per il resto, silenzio e calma. Come piace a me. Dopo il primo caffé avevo già deciso che avrei preso la metro e non la macchina per andare a fare la mammografia, che in fondo sono tre fermate con la rossa e riesco ad ascoltarmi anche un po’ di musica durante il tragitto.

La doccia l’ho fatta con lentezza, come tutti i gesti di questa mattinata solitaria. Oggi niente deodorante, come mi ha detto ieri l’infermiera al telefono, quando mi ha chiamato per ricordarmi dell’appuntamento di oggi, ore dieci e trenta a Somerville. Don’t be late. Si vede che la voce su di me è già circolata anche lì. Decido di non mettermi un vestito, ma un paio di pantaloni e una maglietta, così non devo fare le lastre in mutande, che è già una mancanza di privacy stare con le tette al vento davanti a un’estranea. Rossa, la t-shirt di oggi. Massì, un po’ di colore a questa giornata stanca e leggermente inquietante. Metto le scarpe, la giacca e esco.

Fa caldo. Come quando si deve comprare un paio d’occhiali e si cominciano a notare le montature di tutti quelli che passano per strada, oggi guardo il seno di tutte le donne e mi immagino anche il loro, come il mio, schiacciato dentro quella macchina strana che annienta la sensualità e lo trasforma in due pezzi di carne da analizzare. Ho notato che ci sono un sacco di tipi diversi di tette, almeno nel tragitto da casa mia alla clinica. Devo dire che la scelta del reggiseno fa molto: le schiaccia se ne indossi uno sportivo per la corsa, le accentua se ne metti uno un po’ a balconcino. Anche la maglietta è fondamentale, direi, e anche l’attitudine di chi se le porta in giro: qualcuna ne va fiera, altre non le considerano, altre ancora le vogliono in qualche modo nascondere. Quasi tutti i maschi, invece, almeno nel tragitto da casa mia alla clinica, dico, sembrano apprezzare.

Personalmente ho un buon rapporto con il mio seno, ci vogliamo bene, andiamo d’accordo quasi sempre. Spero che non abbiano niente da nascondermi lì dentro, che sia tutto sano, a posto. Arriva la metro con il suo rombo assordante proprio nel momento in cui inizia la canzone che aspettavo, per cui metto in pausa. Mi siedo, mi infilo gli occhiali da sole (sì, dentro la metro), schiaccio play e la musica struggente mi assale. Non siamo neanche alla fermata successiva che, senza neanche accorgermene piango piano dietro le lenti scure. Un classico.

Arrivo e tocca subito a me. L’infermiera mi dice di toglliermi la maglietta e il reggiseno, di mettermi una vestaglietta di quelle lì e di seguirla. Mi fa due o tre domande intime, tipo quando ho avuto le ultime mestruazioni o il numero di gravidanze (tre) o se qualcuno ha avuto un cancro al seno in famiglia (no). Poi mi chiede il mio numero di telefono; a questo punto però mi aspetto anche un invito a cena, penso. Ma non lo dico, che qui non c’è niente da scherzare.

Ci sono due foto con le loro belle cornici attaccate ai muri: una di un fiore molto simile a quelli disegnati da Georgia O’Keeffe e mi chiedo se sia una coincidenza; l’altra di un fiore a palla rosa, che potrebbe far venire in mente una tetta. E poi c’è lei, la macchina per la mammografia. Immobile. Fredda. Ignara della paura che provoca alle donne che se la trovano davanti. 

L’infermiera mi chiede di sfilarmi la manica destra, iniziamo da lì: prende da un vassoietto un adesivo circolare rosso e senza dirmi niente me lo appiccica al capezzolo. Poi mi prende il seno destro e lo appoggia sulla macchina; con una manovella fa abbassare una lastra di vetro che schiaccia la mia tetta, deformandola. Tre foto in tre posizioni diverse. Poi l’altro seno: adesivo, schiacciamento, foto. Penso a quello che dicevo a Dan l’altra sera: questa è proprio l’era dei selfie. A proposito di foto, dico.

Osservo attentamente il viso dell’infermiera che studia le foto e cerco di capire se d’un tratto diventa preoccupata, se vede qualcosa che non dovrebbe esserci. Lei, me lo ha detto chiaramente prima di iniziare, non può dirmi niente, e sicuramente in tutti questi anni ha imparato a mantenere un’espressione neutrale comunque. Mi dice che il radiologo guarderà le lastre e, se mi deve parlare, mi chiama nel pomeriggio. “Se mi deve parlare”: eufemismo a dir poco.

Esco, telefono a Richard che mi aveva chiamato. Poi mi rimetto le cuffie e prendo al volo la metro. Di fronte a me c’è una bambina piccola, forse di neanche due anni, la pelle scura scura e dui fiocchetti bianchi in testa. Mi guarda e io le faccio ciao con la mano. Le regalo il mio primo sorriso della giornata. Lei, soddisfatta, appoggia la testa sul seno della sua mamma e chiude gli occhi.

Ecco un bell’uso che si può fare del seno, mi dico. Poi scendo.

(Nella foto: Georgia O'Keeffe)


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