Twenty two







Che poi ci eravamo già sposati l’ottobre prima, il 26 per la precisione, nel tardo pomeriggio e cioé appena tornati a casa, sia io che lui, dai nostri corsi universitari. Questo matrimonio però era diverso: prima di tutto avevamo, oltre ai testimoni, anche degli ospiti. Poi c’erano mia madre, le sorelle, i genitori di Dan, la sua, di sorella. Erano stati mandati bigliettini d’invito. Robe così. 

Insomma, un matrimonio vero.

Avevamo deciso di sposarci a Stadera, un paesino di trenta anime sulle colline piacentine, dove la mia famiglia, dal 1974, va ogni volta che può. Ovviamente lì non c’è l'ufficio del Comune, per cui, malgrado Dan sia ebreo, l’unica era sposarsi in chiesa. La stessa chiesa di don Dino, a cui potevamo accedere da una porticina alla fine del corridoio della Canonica che quando eravamo piccoli affittavamo.

Don Dino, adesso che sono grande l’ho capito, era quasi sempre ubriaco, e ci faceva suonare le campane dicendoci di aggrapparci ai cordoni ruvidi e tenendoci per i piedi. Noi cinque (io, le mie sorelle e i miei cugini), la signora Mariuccia e due o tre vecchiette eravamo gli unici a messa la domenica. Noi non vedevamo l’ora che arrivasse quella sua Alfa Romeo blu, che parcheggiava proprio nel sagrato. Usciva, traballante, con le guancie rosse, il don Dino, e noi cominciavamo a litigare per chi toccasse a far suonare le campane. Io e Fabio, poi, rubavamo ogni domenica le ostie sconsacrate, che teneva nel cruscotto e che si attaccavano sempre al palato che poi solo le unghie belle sporche riuscivano a staccare.

Abbiamo deciso di sposarci in quella chiesa lì, dove dopo la messa si andava finalmente al cimitero con le vecchiette che scopavano le tombe dei loro morti e ci dicevano che se ci scopavano anche i piedi non ci saremmo mai sposate. Si erano sbagliate (e io che ci avevo creduto): vent’anni dopo ero lì, a sposarmi con un americano. Ebreo. Mai entrato in chiesa in vita sua. 

I genitori di Dan erano arrivati dagli Stati Uniti, mi ricordo, con il Concord all’andata e al ritorno avrebbero invece viaggiato in nave, perché mio suocero aveva paura di volare. Anni dopo è venuto fuori che l’aereo meno sicuro è proprio il Concord, ma transit. Era dagli anni Settanta che non metteva piede nella sua Roma, dove aveva vissuto fino a quando compì vent’anni circa. Anche perché se ogni viaggio si doveva fare con il Concord, il vai e vieni sarebbe stato francamente ingestibile.

Mi ricordo che eravamo tutti un po’ agitati, e che la sera prima siamo andati a cena dal Pirò, l’unica locanda di Stadera, dove anche lì ci avevo passato la mia infanzia. Vedere la famiglia di Dan a tavola con la Luciana che serviva mi faceva un certo effetto: due mondi completamente diversi che si incontravano nell’angolo più piccolo del mondo. 

Avevo deciso di non dire a Dan cosa avrei indossato il giorno dopo. Ero andata a fare shopping con mia madre e con Grazia Coccia, una cara amica di mia madre e giornalista Rai, che conosceva tutti i negozi del vero centro di Milano: parlo di Monte Napoleone, robe così. “Il vestito da sposa proprio no”, avevamo detto tutte e tre in coro. Mi avevano fatto provare tutt’altro, fino allo sfinimento. Fino a quando, cioè, ormai a sera inoltrata, entrati nel negozio di Armani in San Babila, la commessa ci ha proposto un vestito da donna ma che era in realtà un completo da uomo: pantaloni e giacca color crema, sotto la giacca una camicia di seta blu scura. Abbiamo tutte e tre detto di sì, stremate. Le scarpe (comprate da Bruno Magli) erano invece rigorosamente da golf.

Mi ricordo di aver chiesto a Dan: “ma tu come te lo immagini il mio vestito?”  E la sua risposta fu: “Mah, un vestito bello, femminile e un po’ campagnolo visto che ci sposiamo qui. Con i fiorellini, lungo. Pizzi e trini”. Ricordo anche di aver pensato che l’indomani sarebbe stato lo sposo più triste del mondo. "Già, pover uomo, sposa me. Non una, ma ben due volte". Roba da stare tristi per sempre. Roba da mangiarsi le mani dalla rabbia il novanta percento del tempo che si è insieme. In più, vestita da uomo.

Non dura, ricordo di aver pensato.

La sorella di Dan, che sapeva tutto sui matrimoni, era stata chiara: l’uomo ha i testimoni maschi, e la donna ha testimoni femmine. Non aveva lasciato nessun margine di errore. I miei testimoni, invece erano, in ordine di apparizione: mio zio Bruno, che mi ha portato all’altare talmente velocemente, anche lui per l’agitazione, che la musica non era ancora cominciata che ero già arrivata di fianco a Dan da un bel po’, e Giorgio Terruzzi, con i suoi capelli lunghi, il suo tatuaggio e il suo amore fratermo ormai pluridecennale.

Alla fine della cerimonia, il prete (don Italo) ha annunciato con gioia, nel microfono (che non serviva, visto che la chiesa è grande poco più della mia sala), che Daniel aveva appena preso in sposa Simonetta: in realtà era il nome di sua nipote, che avrebbe sposato invece la settimana dopo, confermando comunque i miei forti dubbi sulla durata di questo matrimonio. A volte penso che se Dan avesse davvero sposato Simonetta forse sarebbe andato tutto molto meglio. Per lui, dico. 

Il vestito da uomo, Simonetta, i testimoni maschi e la chiesa in generale erano tutti sintomi di una imminente rottura non solo tra me e Dan, ma tra ma mia famiglia e la sua, tra i rapporti diplomatici dell’Italia con gli Stati Uniti, tra gli ebrei e i cattolici di tutto il mondo. Un disastro, insomma.

Invece domani sono ben ventidue anni che ci si sveglia nello stesso letto. 22, il doppio di undici; due due. Twentytwo, per dirla come la dicono qui. 

La mia conclusione, quindi, è la seguente: o Dan è autolesionista, o non è vero che io sono così rompicoglioni. 


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