Anche lei si chiamava Maia






Per comprare il latte e la carne biologici (quelli che piacciono a me), da Becket ci vogliono trentacinque chilometri di macchina e arrivare da Guido’s, a Great Barrington, distanza che di solito mi faccio felicemente da sola con la musica alta che fa vibrare di brutto il cruscotto. A volte canto, a volte invece ho la netta sensazione che ci sia qualche amico che si è volatilizzato e si nasconde nella mia macchina, per cui mi vergogno e sto zitta, soffrendo soprattutto del fatto di avere ormai capito di essere veramente pazza.

Ci sono due strade che si possono fare per andare da qui a Great Barrington. Una è più lunga ma più bella, e di solito la faccio all’andata, spinta dalla voglia di andare fuori dalle palle e godermi il mio tempo da sola. La più corta, invece, la prendo al ritorno, avvinghiata dai sensi di colpa per essere stata fuori troppo.

L’altro giorno, al ritorno, ho notato che davanti al liceo, sull’immenso prato scosceso dove d’inverno si va in slitta, c’era un’enorme scritta fatta con la vernice bianca, con solo una parola: MAIA, con un cuore sulla i. Dal liceo a casa ci sono ancora una trentina di minuti, il tempo giusto per volare con la fantasia.

Ho immaginato che ci fosse un ragazzo del liceo, bruttino ma simpatico , magari bravo a disegnare o a suonare uno strumento (tipo Danny Amatullo di Saranno Famosi), innamorato di Maia, che è bellissima e per lui oggettivamente irraggiungibile. Lei in mensa se ne sta sempre con le altre fighe, che prendono in giro tutti, anche lui, che la guarda da lontano senza riuscire a finire il pranzo per via che gli batte il cuore forte. Lei, a differenza delle altre, lo prende in giro meno. Insomma, tipo film. Che poi l'ultimo giorno di scuola si baciano eccetera. Ma alla seconda curva ho pensato che la mia storia fosse di una banalità quasi vergognosa, e che se veramente c’era qualche amico volatilizzato seduto dietro (che c’è ma non vedo), mi direbbe che forse dovrei cantare invece di pensare a storie del genere. L’ho presa come una specie di sfida personale, che mi ha spinto a pensare a una storia più interessanti.

Magari che Maia è malata grave e che i suoi amici le hanno scritto il nome grande, così ogni volta che lei o la madre passano di lì piangono come delle bestie. Altra cagata.

Magari sta prendendo il brevetto di aviazione e hanno scritto il suo nome così grande che lo può vedere dall’alto. Sì, al liceo adesso si prendono i libretti d’aviazione?

Magari ha una nemica che ha scritto il suo nome per metterla nei guai. D’estate: quando il preside è con le balle a mollo in Florida? Dubito.

Magari invece l’ha scritto lei: dopo tutto a Great Barrington non c’è molto da fare, e i ragazzi si annoiano sicuro come l’oro. Ma una ragazza va da sola a scrivere il suo nome? Nessun amico va con lei, e nessuno osa aggiungere il proprio? Non ci credo.

O forse è morta.

Cazzo. 

È morta la povera Maia. Così una cara ragazza. Ecco perché c’è il cuore sulla i, mi sono detta.

Anche a me è morta una Maia, una volta che avevo dodici anni. Era il mio cane, che in un tema di prima media avevo scritto di voler sposare, guadagnandomi un invito della mia professoressa ad incontrare i miei genitori per condividere con loro la sua preoccupazione per i miei progetti per il futuro.

Maia era un boxer su cui avevo puntato tutto il mio futuro, effettivamente, e passavo i pomeriggi ad insegnarle a fare le addizioni, o a insegnarle a leggere le note sul rigo. Le dicevo: “ Due più due!” e lei doveva muovere la zampa come se graffiasse il pavimento quattro volte. Non ce l’ha mai fatta, ma devo anche dire che è morta giovane: secondo me ci sarebbe arrivata senza problemi.

Maia era però un cane problematico: aveva distrutto quasi tutta la casa, e non bastò un’ombrellata di mio padre sulla schiena per fermarla; non la fermò l'idea di impegnarsi a fare un buco grande come lei nella porta dell’ascensore (che è anche la nostra porta di casa). Io invece ero contenta, perché si vedevano le funi che andavano su e giù, come per magia. Una tecnologia che non comprendo a fondo ancora adesso. 

L’ombrello si spezzò, ma lo spirito della mia Maia rimase intatto. Come la volta che distrusse a pezzettini grandi come quei bellissimi coriandoli carnevaleschi il divano della casa in affitto in Liguria. Mi ricordo lo sguardo furente die miei genitori, e il suo (di Maia) sinceramente dispiaciuto.

Poi un giorno Maia si ammalò a tal punto da prendere la decisione di vivere con tutte le sue piaghe nel bagnetto, come se si vergognasse. Da allora era proprio lì che io andavo a fare i compiti e a passare i miei pomeriggi: su quelle piastrelle blu, di fianco a lei. Le chiedevo ancora della matematica, ma si capiva che non ne aveva più voglia. Le cantavo le canzoni di Dalla che avevo imparato, e anche (e non mi vergogno a dirlo), quelle di Umberto Tozzi. Poi le pulivo le piaghe, che la medicina faceva diventare bianche da marroni che erano, ma che poi tornavano marroni e io ci rimanevo malissimo perché voleva dire che non miglioravano. Diventavano infatti sempre più grosse, e lei sempre più mogia.

Poi un giorno non c’era più. I miei genitori mi avevano imposto, malgrado i miei pianti forti, di andare in campagna, così che potessero portarla dal veterinario e finirla con questo suo cancro che la stava mangiando viva. Ho sofferto tantissimo, e infatti in quel bagnetto, tuttora, ci vado solo per le emergenze.

Ecco, pensavo a due curve da casa: quella stronza di ragazza del liceo forse morta doveva proprio chiamarsi Maia e farmi piangere in macchina...

Che poi magari è stata una bravata ed è viva e vegeta.


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