"L'amico ritrovato" (cit.)










Quando andammo a vivere a Brooklyn, iscrivemmo Sofia all’ asilo alla fine della nostra strada che si chiamava Maple Street School, anche se la via si chiamava Lincoln Road. La scuola, piccola e molto carina, era diretta da una giovane mamma, Wendy, ma gestita dai genitori per cui ci si conosceva un po’ tutti e io e Dan diventammo molto amici di alcune delle famiglie coinvolte.

Tra loro c’era una coppia di medici tedeschi, Jacqueline e Stefan, e con loro passammo molto tempo insieme, più che altro a bere delle gran bocce di rosso, a fumare e a chiacchierare nella loro casa stupenda in un quartiere non lontano dal nostro. Tutti e due molto affascinanti, ma lui di più. Maggiore di sei fratelli, ha passato parte della sua infanzia in Turchia, perché un giorno il padre decise di licenziarsi dalla scuola in cui era preside e trasferì tutti a Istanbul.

Di mestiere Stefan fa il primario del pronto soccorso del più grande ospedale di Brooklyn e ne vede di tutti i colori: pallottole negli occhi, bambini picchiati dai genitori drogati, pezzi di persone arrivati dopo incidenti in moto. Convive con l’adrenalina, non solo al lavoro ma anche fuori: è uno di quelli che vanno in bici come dei pazzi, che nella vita ne hanno fatte di ogni, anche saltare da una macchina all’altra, ad alta velocità, nel Sahara, per dire. I suoi racconti, con quella sua voce bassa e tranquilla, con quegli occhi puntati su chi lo ascolta, emanano una voglia di vita e di avventura come quando si legge un libro di quelli che anche se è l’una e devi spegnere la luce, dici un altro capitolo e poi dormo.

Io, come credo tutte le mamme e qualche papà di Maple Street, ero segretamente innamorata di lui anche se lui era immensamente innamorato di sua moglie per cui non c’era ciccia per gatti.

Poi ce ne venemmo via da Brooklyn, per via che il nostro vicino ci aveva annunciato che sarebbe diventato pazzo e infatti lo divenne, e le serate con i nostri amici tedeschi finirono bruscamente. Negli anni ci siamo sentiti, ma sempre più di rado. L’ultima volta che li ho visti è stato quattro anni fa, quando Stefan venne a trovarci con Anton, suo figlio.

L’altro ieri il ping dei messaggini del telefonino mi annuncia che Stefan è a Boston e che gli piacerebbe passare una serata con noi. Ero felicissima di poterlo rivedere, sapevo che sarebbe stata una di quelle serate di anni prima, e anticipavo i racconti, il sorriso, gli abbracci. È arrivato ieri sera, mezz’ora di ritardo (ma, da bravo tedesco, aveva chiamato per dircelo) e Dan era in cucina a preparare una delle sue cenette da urlo.

Appena è entrato ho notato che c’era qualcosa di diverso in lui. Certo, mi sono detta, è un po’ invecchiato come tutti. Ma no, era altro. Ci siamo abbracciati, un po’ impacciati. Strano quest’impaccio, ho pensato. L’ho accompagnato in cucina e mi sono accorta che la sua mano sinistra tremava molto. “Come stai, caro mio?” gli chiedo sperando che avesse solo freddo. “Sono cambiate molte cose dall’ultima volta che ci siamo visti: ho il morbo di Parkinson”. L’ha detto subito, ancora con il cappotto addosso e con il sacchetto con dentro due bottiglie comprate qui dietro. “Un mio collega neurologo che si occupa di questa malattia mi ha detto che ho ancora cinque begli anni davanti, e poi si scivola giù.”

Per un attimo mi si è fermato il cuore. È stato come vedere un leone ferito. Ha aggiunto che quando è agitato poi trema di più, ma che un bicchiere di vino aiuta sempre.

Abbiamo bevuto tre bottiglie in tre, e aveva ragione: dopo un po’ è ritornato a essere quello che era quando l’avevo visto l’ultima volta, quattro anni fa, forse perché mi ero un po’ abituata al suo nuovo essere lui o forse perché la conversazione, partita con una dichiarazione difficile da digerire, si è trasformata in quelle di sempre, quelle a casa sua, a bere delle gran bocce di rosso e a fumare.

Gli voglio molto bene.


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