Shoah. Per non dimenticare.






ILSE, A CHILDHOOD FRIEND of mine,
once found a raspberry in the camp
and carried it in her pocket all day
to present to me that night on a leaf.

IMAGINE A WORLD in which
your entire possession is
one raspberry and
you gave it to your friend.

                                                                (New England Holocaust Memorial)

Oggi si festeggia nel mondo la Giornata della Memoria. In un certo senso è brutto che si sia dovuto scegliere un giorno, un solo giorno all’anno per ricordare le atrocità naziste, perché dovremmo non dimenticarcele mai, in nessun momento. Però, se non altro, sappiamo che almeno un giorno, se leggiamo il giornale o andiamo sui social network, volenti o nolenti ci soffermiamo a guardare delle foto dei campi di concentramento, o a leggere un articolo, o un’intervista a Primo Levi. Meglio di niente.

Io ogni Giornata della Memoria ho sempre fissi due pensieri. Il primo è una fotografia, di cui ho già parlato, (ma siccome è la giornata della Memoria vi rinfresco le idee) che mi mostrò anni fa la mamma di Dan, ebrea di Chicago.

Era una foto in bianco e nero, che mostrava un gruppo di persone, tutti famigliari, in un cortile interno dell’allora Prussia. Alcuni erano seduti, alcuni in piedi; bambini che facevano fatica a star fermi e aspettare che il fotografo scattasse, come farebbe mia figlia Emma, che sarebbe stata la loro cugina di terzo grado. Alcune donne stavano sedute e avevano in braccio dei bimbi piccoli mentre la maggior parte degli uomini sfoggiava barba e baffi. Erano tutti vestiti eleganti, forse per la foto o forse perché allora si usava così. Chissà. E chissà perché avessero deciso di fare una foto di famiglia. Forse un presagio, forse no.

”Ecco”, mi disse mia suocera, “questa è la parte della mia famiglia rimasta in Europa. Quelli che vedi in questa fotografia sono tutti morti nei campi di concentramento”.

Quella immagine di parenti di mio marito, e quindi parenti dei miei figli, rappresenta per me la concretezza della mancanza. Mancanza di un pezzo dei miei figli, internata e massacrata dall’odio nazista. La distruzione di una famiglia intera, e di 6 milioni di persone esattamente uguali a loro. 

A cui si devono aggiungere 270mila disabili.

A cui si devono aggiungere dai 5 ai 15mila omosessuali.

A cui si devono aggiungere da 90 a 220mila ROM.

A cui si devono aggiungere dai 2 ai 3 milioni di prigionieri russi.

A cui si devono aggiungere un altro paio di milioni tra testimoni di Geova, minoranze di diversa etnia e molti, molti altri.

La seconda cosa che mi viene in mente nella giornata della Memoria è che, sembrerà strano detta così, ma le leggi antisemite in Italia hanno fatto in modo che io e Dan ci conoscessimo.

Infatti la nonna di Dan, italiana che abitava a Roma, vedova con due figli, si risposò negli anni Trenta con un docente universitario della Sapienza, un medico ebreo, che durante il fascismo venne ovviamente licenziato. Si inventò la storia di una conferenza negli Stati Uniti per fuggire la deportazione, e non tornò più in Italia. Lo seguì qualche mese dopo la sua nuova moglie e uno dei figli: il padre di Dan, ventenne, volle rimanere in Italia, ma fu costretto a emigrare negli Stati Uniti prima del suo ventunesimo compleanno così che potesse ottenere il visto grazie a sua madre e a suo patrigno (allora si diventava maggiorenni a 21 anni). Venne malvolentieri, lasciando a Firenze una fidanzata e buttando in mare i suoi libri di Gramsci, per paura che alla frontiera non lo facessero passare.

The rest is history, come si dice da queste parti. Se non ci fossero state le leggi razziali, la famiglia di Dan non sarebbe certamente fuggita negli Stati Uniti, mio suocero non avrebbe conosciuto mia suocera e Dan non sarebbe nato.

Non dimentichiamo. Mai. E non distogliamo lo sguardo, mai, da quello che sta ancora succedendo nel mondo.

Buona giornata.






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