Luca e le sue trivelle





Una delle agevolazioni del vivere all’estero è che si vota comodamente da casa: arrivano le schede elettorali, tutte colorate, dal Consolato, nella loro bella busta, con le loro belle istruzioni, uno fa la sua bella crocetta, e cioé il suo dovere di cittadino, e via. Non serve neanche il francobollo, che viene generosamente offerto dalla nostra Repubblica. L’altra cosa bella del vivere all'estero è che non si devono ascoltare, se non si vuole, tutte quelle persone che vanno alla tivvù e ti spiegano cosa dovresti votare. Tutto il resto è francamente una rottura di coglioni. Questa volta ne sono arrivate due, di buste: una per Marina Donatella Viola (che sarei io), e una per Luca Piero Canale-Parola (in arte, mister Shmoo), anche lui fiero cittadino italiano, e maggiorenne da un annetto emmezzo. 

Luca è uno di quelli che in teoria non potrebbe votare, perché non solo non guarda le televisione (neanche quella italiana), ma non sa né leggere, né scrivere, né conversare e nemmeno sa di essere italiano. Figuriamoci cosa ne sa lui di trivelle e di pertolio.

A casa mia, fin da piccole, ci è stata insegnata una cosa, credo, molto importante, e cioé che quelli che dicono di essere onesti fino a un certo punto sono disonesti. Questo principio era talmente creduto e seguito tra di noi, che mia madre non ha mai neanche fatto una fotocopia per le nostre ricerche delle medie, quando lavorava in Rai, e mio padre non ha mai neanche lui sgarrato di una virgola in quel campo lì. Insomma, è una frase talmente sentita e risentita in casa nostra, che mio padre l’aveva anche infilata in una canzone che poi fece anche un discreto successo commerciale (anche se non abbiamo mai visto una lira, ma questa è un’altra storia, che forse c’entra con l’onestà, ma non stiamo qui a far polemiche).

Per cui, se io avessi davvero seguito i principi di casa Viola, avrei fatto in modo che Luca, esonerato a causa del suo funzionamento neurologico e per come guarda il mondo, non votasse. Mi sono sentita, infatti, un po’ anche in colpa quando ho chiamato Luca in cucina, e gli ho chiesto di spegnere il suo James Taylor che francamente ci ha anche un po’ rotto le palle, gli ho fatto impugnare una penna, gli ho preso la mano, e insieme abbiamo fatto una crocetta un po’ sbilenca su quel sì lì. Lui, dal canto suo, pareva anche contento, forse perché sapeva che dopo quel compito avrebbe potuto riprendere il suo iPad e scappare in camera sua, togliersi i pantaloni, e andare sotto le coperte a fare quelle cose lì che una mamma non dovrebbe sapere.

Malgrado il senso di colpa per avergli fatto fare una cosa che non avrebbe dovuto, mi sono anche sentita crescere una specie di fierezza da mamma di figlio strano, perché quella crocetta, quella scheda elettorale, verrà contata come tutte le altre, né più né meno, e ho avuto l’illusione, anche per un istante, che lui valesse come tutti gli altri. Come in una specie di democrazia, in cui tutti siamo uguali.


Lo so: non è che l’onestà uno la deve spiegare, non è un’opinione. E non è neanche malleabile per ogni situazione famigliare, o personale. O per sentirsi meglio. Fino a lì ci arrivo. Diciamo che il governo italiano non è stato notificato del fatto che un suo cittadino, in questo caso il ragazzotto che ascolta ancora le canzoni dei bambini piccoli, non ha diritto al voto, come quelli in carcere, per esempio. Non ho fatto apposta, se può in qualche modo diminuire il mio reato: non avevo pensato di dover dire alle autorità che lui è esonerato. 

Lo farò al più presto. Prometto.


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