Fumo in casa


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Oggi marca l'ottavo giorno che sono a Becket da sola. Sono venuta a lavorare sull’editing del mio nuovo libro che uscirà a gennaio o forse a febbraio. Questa era la scusa, almeno. Sono soprattutto venuta per fare una specie di esperimento: per capire quanto avrei resistito a stare lontano da tutto e tutti, venire dentro questa foresta, a occuparmi dei miei cani, del mio lavoro, di me stessa nel silenzio, nel verde, tra alberi e laghetti. Ma anche a mangiare da sola, ad affrontare i momenti di noia, i miei pensieri a volte inquieti, il letto senza Dan (non posso dire vuoto, perché fortunatamente i miei cani dormono con me).

Come i grandi, mi sono subito imposta una routine: sveglia prestissimo, tipo le nove e mezza, prima uscita veloce con i cani, spesso in pigiama perché tanto che me frega?, caffè, Lavazza, e spremuta d’arance comprate al supermercato. Mentre faccio colazione, chiamo prima Sofia e poi Emma e infine Dan, e ricevo tre diverse versioni della stessa mattina: Sofia dice che Emma ha lasciato tutti i piatti sporchi nel lavandino, Emma dice che Sofia dice palle e Dan mi racconta che Shmoo si è svegliato contento, ma chiesto di me tremila volte prima di andare a centro diurno. Aggiunge: “Sofia ha lasciato dei piatti sporchi e ha dato la colpa a Emma”. Scenette di normale amministrazione, segnale che è tutto sotto controllo.

Verso le dieci prendo la pallina di Fiona, segnale che è ora di andare al lago. È una camminata di un quarto d’ora, che passo a controllare le email nella speranza di non trovare casini al lavoro o altro. I cani, invece di stare sulla strada non asfaltata, se ne vanno tra i boschi: l’itinerario lo sanno a memoria, e sanno anche che ci incontriamo lì. La spiaggetta è piccolina e sempre vuota, ma splendida, con la sua sabbia e il suo gracidare di rane. Il tavolo di legno da picnic messo nel mezzo ne occupa metà dello spazio. In mezzo al laghetto ci sono un’isoletta tutta verde e una famiglia di oche canadesi, che ogni volta che vede i cani starnazzano con quella loro voce altissima: è il primo suono della natura che sento, ogni mattina. Quando arrivo, Fiona, per metà labrador, è già nell’acqua, mentre Rosie, boxer, sta sulla riva con quella sua aria preoccupata. Tiro la pallina in mezzo al lago un bel po’ di volte, e dopo una mezz’oretta torniamo a casa. Dò la pappa ai cani e faccio la doccia. Verso le undici porto il computer sul tavolino sulla grossa pedana di legno al confine con il bosco, che descrivo come il mio ufficio di Becket, mi metto davanti al computer e lavoro. Spesso non mi accorgo neanche delle ore passate, ma me lo ricordano Fiona e Rosie, pronte per una nuova avventura. Andiamo a passeggiare per le strade qui attorno. Poi, immancabilmente, è l’ora del pisolo, sia mio che loro. Verso le tre, dopo il caffè, lavoro fino a cena, poi parte Netflix, con un generoso whiskino. Fumo molto in casa, cosa proibitissima a Cambridge, porto le girls per l’ultima pisciata e insieme andiamo a nanna.

Durante questi otto giorni ci sono state anche delle avventure. La prima, l’altro giorno, quando ho ricevuto una telefonata da un numero sconosciuto, ho risposto e una voce allarmata con un forte accento dice solo: “Your son! Come!”. Bocca secca e cuore in bocca, gli dico: “I’ll be right there!” perché non so cosa dire e non so chi sia. Chiamo Sofia, che non risponde e mi manda un messaggio: “Sto facendo pipì!”. Il panico sale a livelli da infarto. Sono le sei di sera, non può essere il guidatore del pulmino, che anche non parla inglese. Penso per un secondo. Il negozietto alla fine della strada! Luca era già scappato di casa settimane fa e non riuscivamo a trovarlo. Era nel negozietto a piedi nudi e cercava di rubare una confezione dei suoi biscotti preferiti. Avevo dato al commesso, pakistano che non parla una parola di inglese, il mio numero, e lo avevo pregato di chiamarmi se Luca fosse venuto da solo. È lui, penso. Richiamo Sofia, risponde e dico solo: “Luca è al negozietto. Vai immediatamente!” “OH MY GOD!” urla impaurita. Dopo qualche minuto mi richiama, con il fiatone: Luca era andato a piedi nudi, ma con il bicchiere che usa sempre per il latte, e stava cercando di rubare un litro di latte. Sofia, purtroppo, non aveva portato il portafogli, ma Luca era irremovibile: no milk, no home. Il signore pakistano le ha detto di non preoccuparsi, che avrebbe potuto portare i soldi domani.

Il giorno dopo, Sofia mi telefona piangendo: attacco di panico e terrore di avere una malattia ai reni. “Reni?”, chiedo sorpresa.  “Sì”, mi dice tra i singhiozzi. “Ho mal di schiena!”. C’è voluto un bel po’ per convincerla che non si tratta di brutto male, ma solo che forse aver dormito per terra per due giorni in Vermont con i suoi amici le ha fatto venire un dolorino. Dramma, anche quello però risolto dopo aver contattato uno dei miei migliori amici, Byrne, un medico, che l’ha chiamata e l’ha rassicurata.

Per il resto, devo dire, è andata benone. Se dovessi tirare le conclusioni di questi otto giorni direi che ho scoperto alcune cose di me che non sapevo: parlo molto da sola e rido delle mie battute, se si va a letto senza fare la cucina non muore nessuno, sono esperta nel togliere le zecche, ho sposato l’uomo più incredibile del mondo, se il vino è bianco non riesco a smettere, una forma di Brie mi dure circa sei giorni, sono bravissima a fare il fuoco fuori, la sera, mentre ascolto Jimi Hendrix, gli spaghetti aglio olio e peperoncino sono facili e buoni, e che il libro, modestamente, sta venendo una figata.

Stasera arrivano Luca e i ragazzi e non vedo l'ora di vederli. 







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