Scintille cerebrali









E domani sono cinquantadue. Come dice mia madre, cominciano a essere tanti. In effetti, mi accorgo che sono nell’età in cui penso spesso a quello che ho fatto o quello che avrei voluto fare, piuttosto che a quello che farò.

Non sono vecchia vecchia, lo so. Ma ci sono cose che mi piacerebbe fare, anche se il treno è già passato da tempo.
Mi piacerebbe tornare a studiare, prendere un dottorato in sociologia.
Mi piacerebbe allattare ancora.
Mi piacerebbe fare il giro del mondo.
Mi piacerebbe gioire e poi soffrire per un amore sbagliato in partenza.
Mi piacerebbe avere tutti i capelli castani, invece che grigio e castani.
Mi piacerebbe poter tornare indietro e, con il senno di poi, cambiare un po’ la rotta.

Non ho ancora mai avuto cinquantadue anni, per cui non so come mi sentirò a quell’età, ma se sono simili ai cinquantuno, penso che anche in un momento di quest’anno, in una notte piena di falene e di stelle come stasera, mi ritroverò a fare due conti.
Finora (ma ripeto, magari poi cambia) ho scoperto una presenza costante nel percorso affrontato fin qui: quella del dolore. È interessante, perché siamo cresciuti pensando che per vivere bene dovremmo evitare di essere tristi,  eppure è uno dei sentimenti più importanti per crescere. In qualche modo, me ne sono affezionata, al mimo dolore. Gli devo molto. L’altra sera ho guardato un documentario in cui si spiegavano i cambiamenti che avvengono nel cervello quando una persona affronta un trauma. Una parte, pare, diventa più scura, senza le scintille che si vedono nelle immagini del cervello.

Ho provato dolore per la perdita senza preavviso di un genitore e credevo che sarebbe stato il dolore più grande della mia vita. Quindi, a quindici anni mi sono giocata un’area del cervello che da allora è buia. Ricordo, mentre vivevo questo dolore, di aver pensato: beh da adesso in poi andrà tutto liscio, perché questa è senz’altro la cosa peggiore che mi possa capitare in tutta la mia vita.

Poi, quando avevo ventotto anni, è nato Luca e con lui una vita estremamente complessa. Il dolore, in questo caso, è dovuto all’idea di dover morire e lasciare al mondo una persona estremamente vulnerabile, un bimbo adulto di due anni. Ai miei occhi, è il più grande capolavoro della storia dell’umanità. Luca è senza dubbio la mia Cappella Sistina. Ma è anche vero che pure ò scarrafone pare bello a mamma sua. Dico di più: il dolore di aver partorito un figlio diverso dal resto del mondo è stato invece stranamente passeggero, perché con il tempo, da Luca ho imparato delle lezioni di vita che ormai reputo essenziali. Dico la prima che mi capita: quella dell’alzarsi di buon umore ogni mattina, anche se c’è una pandemia mondiale, anche se hai dormito male, anche se la vita è tutta una merda. Ma l’idea di lasciarlo in questo mondo da solo, senza rete di protezione, mi trafigge letteralmente il cuore. Questo, ne sono certa, ha lasciato senza scintille un’altra parte del mio cervello, che si è oscurata.

Come se non bastasse, mi sono cuccata in pieno il dolore della distanza, che mi tiene prigioniera dal lontano 1991. Si è risvegliato soprattutto i questi ultimi anni in cui mia mamma e i miei zii stanno diventando sempre più anziani. Dovrei essere lì, stare con loro, aiutarli, sorreggerli nei momenti difficili e scoppiare a ridere per niente. Certo che sono estremamente privilegiata: non sono fuggita a nessuna guerra, non sono venuta in un Paese che mi ha discriminato, sfruttato. Non sono venuta qui a fare la fame. Ma una cosa che accomuna tutti noi che abbiamo abbandonato le nostre radici è proprio questo dolore della distanza dalla propria cultura, dai propri riti, dagli affetti. E bam!, un altro pezzo di cervello che va a fottersi.

Dopo essere finalmente riuscita a schiacciare una zanzara tra i palmi delle mani, penso: oddio, adesso sembra che stia vivendo una vita di merda, piena di robe brutte, e invece sono estremamente fortunata, privilegiata e apprezzata. Ho un marito che mi adora, tre figli meravigliosi, tanti affetti, la possibilità di vivere una vita agiata. Ho avuto enormi soddisfazioni e spero di averne ancora tante. Forse per il fatto che c’è una zanzara in meno nel mondo, ma fatto sta che comincia a scintillarmi la parte del cervello che è ancora viva, piena di luce. È strepitosa, piena di immagini manco fosse un bel film di una vita interessante e appagante. Ammadonna, mi dico ancora una volta: se scrivo ‘ste robe adesso che ne faccio cinquantadue, quando ne compio ottantasei, cosa scrivo?
(Tra parentesi: notare l’ottimismo di vivere così a lungo e di avere ancora delle robe da dire a ottantasei anni).

La verità, quella della vita che è fatta di cose belle e di cose brutte, è troppo banale, per cui l’ultimo pensiero che mi balza in testa è che vi siete bruciati quattro minuti della vostra vita (forse breve, chissà?) a leggere delle cagate di una stronza a cui non va mai bene niente e che sicuramente manco conoscete. Quattro minuti che appartenevano solo a voi e che non torneranno mai più.

Stai a vedere che la morale della vita è questa: bisogna essere più selettivi nella scelta delle letture.

(Nella foto, sfuocata, avevo solo cinquantun anni - 'na ragazzina)


Commenti

  1. Quattro minuti spesi benissimo. Esattamente come i tuoi anni. Auguri

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  2. noi, le donne che poco si occupano di sé stesse ma si occupano o vorrebbero occuparsi sempre degli altri......una figa o un privilegio? ti voglio bene

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