Il gioco dell'oca

 









Dopo la crisi epilettica che ha avuto Luca, mi sono trasformata in una persona diversa, non come Dan, che sembra tranquillo, come sempre molto razionale, e continua a dire che secondo lui non succederà più, e che dovesse succedere ancora, adesso sappiamo cosa fare. Beato lui. Farei carte false per avere almeno un angolino del suo carattere, che lascia poco spazio alla paura e alla disperazione. 


Io invece non sono per niente tranquilla, e come più di vent’anni fa, sono ricaduta nell’angoscia e nell’ansia del chissà cosa ci dicono adesso i dottori, del chissà cosa trovano nel cervello, dell’adesso cosa facciamo. Sono ritornata alla partenza, devo riportare la mia pedina alla partenza, ricominciare da capo il gioco dell’oca. Siamo ancora lì a consultare neurologi, a fare gli elettroencefalogrammi, a sperare che non sia nulla di grave, a temere l’ignoto. A rivedere un film già visto. Ad avere paura per Luca.


Questa volta sono cascata nel vortice dell’ignoto con una pedina in più rispetto a vent’anni fa: sono arrivata dopo aver già provato la sordità del dolore che si prova quando si ha la certezza che il proprio figlio sta per morire. In compenso, arrivo con una o due pedine in meno, per esempio la poca energia, rispetto ad allora, e con la certezza che questo periodo di attesa non è alla fine, ma soltanto all’inizio di robe non belle.


I traumi non si superano. Tutt’al più smettono di gridarti nelle orecchie. O forse neanche: forse siamo noi che impariamo a ignorarli. Li avvolgiamo in una ragnatela che tessiamo ogni volta che accade qualcosa di positivo, per creare così un seppur sottilissimo strato che separa il trauma dalla nostra carne viva. A volte i traumi si appisolano, a volte ci danno l’illusione di rattrappirsi. E invece sono sempre lì, dietro l’angolo, concentrati come un gatto davanti a un topo. Basta un lampo di ricordo, una frase, un’immagine, un articolo di giornale che loro ti saltano addosso. Tigri affamate.


I traumi che ho vissuto e che mi pedinano dal 1982 sono tre: la morte di mio padre quando avevo quindici anni, il terrore di affrontare una vita con un figlio disabile, e il nanosecondo che avrebbe potuto passare tra io che cercavo Luca in tutti gli angoli della casa e lui che galleggiava nella piscina, più morto che vivo. Così, con questo zaino pesante sulle spalle, sono arrivata alla terribile crisi epilettica del 5 luglio. Io, Sofia e Emma e abbiamo passato due lunghissimi minuti nella certezza che mio figlio e loro fratello stesse morendo.


Quando Luca ha smesso di avere la convulsione, ha cominciato a russare, sia aspirando che espirando. Gli occhi erano a mezz’asta, il viso bianco e le labbra viola. Esattamente come quando lo avevo pescato, letteralmente, dalla piscina. Un peso morto, pallido e con le labbra viola. Questi due momenti sono identici, e lì mi è ritornato il terrore indimenticabile della volta in piscina. Stessi colori, stessi occhi, stessa difficoltà incredibile di respirare. Nel momento in cui Luca ha cominciato a respirare con tanta difficoltà, gli ho messo il mio indice sinistro in bocca, per cercare di spostare la sua lingua. Pensavo che stesse bloccando le vie respiratorie, che si stesse soffocando da solo. Pensavo che poi se muore e io avrei potuto salvarlo, sarebbe stato ancora più terribile. Quindi, ho infilato il mio dito nella bocca di Luca, che, avendo la mandibola estremamente tesa, mi ha morso e io non riuscivo a togliere il mio dito dalla sua bocca, che ha cominciato a sanguinare. Quando ce l’ho fatta, Luca si stava risvegliando dall’incubo e stava cominciando a muoversi sul letto, completamente spaesato. Sembrava pazzo. Gli ho dato il suo iPad, ma non sapeva nemmeno cosa fosse. Impensabile. La cicatrice sul dito sta per scomparire. Da quel cinque luglio mi prometto che quando andrà via starò meglio.


Nel frattempo, sono arrivate le due ambulanze e in camera di Luca c’erano quattro persone e una sedia simile a Qualcuno volò sul nido del cuculo. L’adrenalina mi ha risparmiato il pianto, e, insieme ai quattro delle ambulanze, lo abbiamo legato alla sedia come se fosse Hannibal Lecter. Sofia e Emma guardavano con il terrore negli occhi. Pagherei qualsiasi cifra per togliere dai loro ricordi questi momenti allucinanti.


Mi sono ritrovata esattamente nello stesso incubo di allora, con le stesse frasi che mi venivano ripetute allora: facciamo i test, gli esami, e poi vediamo, un altro secondo e sarebbe morto, ma invece è qui. Le persone attorno a me cercavano di indirizzarmi verso un percorso di ridimensionamento dell’accaduto, che invece ho impiegato anni a trovare. I poi invece e andato tutto bene; ha fatto paura ma poi non è successo niente; vediamo il lato positivo: è vivo; non esagerare, dai. Quella roba lì, che forse avrei detto anch’io in quella circostanza, coincide con l’impossibilità di spiegare a chi non ci è passato che la ferita è talmente profonda che ha bucato anche dall’altra parte. Che non è morto, ma avrebbe potuto morire, che è un caso che sia ancora con noi.


L’altro giorno abbiamo sentito il neurologo. Dice che per una persona con le diagnosi che ha Luca, autismo e sindrome di Down, non è strano che abbia delle crisi epilettiche, che adesso facciamo l’elettroencefalogramma per capire se ne avrà ancora, se è necessario medicarlo o se invece possiamo aspettare. Che potrebbe essere l’inizio di un disturbo epilettico o un caso isolato. 


Sì, dottore. Grazie. 


E siamo da capo.

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