Pantaloni stirati

 






Nel Massachusetts è sempre così: la primavera dura due, tre ore al massimo, poi arriva il caldo mortale. Siamo passato da 4 gradi a 35 nel giro di due giorni. Sono iniziati tutti i rumori delle arie condizionate, dei sandali strisciati sul marciapiede, e, purtroppo, degli uomini con bermuda, calzette nere metà polpaccio e sandali. 

 

Oggi ho deciso di fare il cambio di stagione. Ho tirato fuori dall’armadio la grossa sacca trasparente di Ikea in cui l’anno scorso avevo messo tutti i vestiti estivi. L’ho aperta lentamente. Ho pensato subito che l’anno scorso, quando li avevo messi via, mia mamma era ancora viva. Lo so, cazzo c’entra con il cambio dei vestiti? Niente, solo che io ero una persona completamente diversa da adesso. Ero ancora intera. 

 

Ho ritrovato la mia gonna rossa, quella lunga, e le magliette messe lì, in modo un po’ stropicciato. Sul fondo della borsa, poi, li ho visti, ancora intatti: i pantaloni di lino gialli che mia mamma mi aveva stirato. Riconosco che è una cosa fatta da lei: io non stiro mai, figuriamoci d’estate. Ricordo anche di averli portati a Milano insieme a quelli uguali, ma bordeaux, che invece ho lasciato nel mio armadio in via Sismondi. 

 

Ho sentito un tuffo al cuore. Con un magone istantaneo, li ho tirati fuori dalla borsa come se fossero di cristallo. Li ho annusati: c’è senza ombra di dubbi l’odore di mia mamma, o meglio del detersivo che usava. Ci sarà sicuramente qualche traccia di lei, il suo DNA stampato su ogni fibra. Ho pensato di non mettermeli, di tenerli come ricordo, come se l’odore di un detersivo dell’emmedì potesse in qualche modo fare ricomparire la mia mamma in carne ed ossa. Invece ho deciso di mettermeli, di farmi abbracciare da lei attraverso un paio di pantaloni. 

 

Giovedì io, Dan e Luca partiamo per Milano. Sarà la prima volta che Dan e Luca solcheranno la porta di casa della mamma vuota. Per Luca sarà devastante. Per Dan anche.

 

Per me, venire a Milano è sempre stato un momento di incondizionata felicità, con quell’odore di ritorno a casa, quel sapore del tortello, che mia mamma preparava per ogni mio arrivo. Tornare a Milano significava chiamare la mamma dall’aeroporto e dire sono arrivata, e aspettare la sua chiamata dopo mezz’ora per chiedermi dove sei? Sul taxi. Che bello!, rispondeva sempre con una voce sorridente. Venire a Milano voleva dire alzare lo sguardo verso il suo terrazzo e vederla sbracciarsi per salutarmi, voleva dire sentire la sua voce mentre ero in ascensore che diceva che bello! Sei arrivata. Andare a Milano voleva dire aprire quella porta e godermi l’abbraccio lungo e bagnato di lacrime di mia mamma, che mi diceva la tua camera è pronta, dai porta di là le valigie e che ci fumiamo una sigaretta in cucina.

 

Adesso andare a Milano vuol dire scontrarmi con il silenzio, con il vuoto, con la mancanza. Adesso andare a Milano vuol dire che il mio cuore si riempie di tristezza, di solitudine. Vivere lontano da Milano mi ha aiutato, in questi mesi, a distrarmi dal suo non esserci. Non è che non pensi a lei o che non mi manchi, ma la sua non era una presenza fisica quotidiana. Certo, la chiamavo tutti i giorni, a volte anche due volte al giorno, se dovevo chiedere di una ricetta, o dei risultati di alcuni esami, o di come stavano le sorelle. Ma è molto più facile quando è una telefonata a mancare, invece che un abbraccio, senza ombra di dubbio. 

 

Poi, quando invece arrivo a Milano, vedo il suo spazzolino da denti ancora lì, le pantofole, il golfino ancora appeso alla poltroncina in camera sua, i suoi occhiali da lettura, la lavagna su cui ancora c’è scritto di pagare l’acqua di Bordighera, ecco che mi ritorna tutto il dolore addosso, quello che pensavo fosse in qualche modo mitigato dal tempo e dallo spazio. È ancora lì, tutto lì, come una bomboletta che invece di avere la lacca, ha il dolore immenso della perdita della mamma. 

 

Vedi a volte cosa può scatenare un paio di pantaloni stirati? Cose tremende appiccicate a cose stupende.



(Nella foto, scattata da mia mamma, l'ulivo sul suo terrazzo)

 

Commenti

  1. Bellissime le tue impressioni....mi sono arrivate al ❤️❤️❤️ Abito vicino a via Sismondi...e adoravo tuo papà

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  2. Ogni volta le tue parole ben calibrate e precise arrivano dove devono arrivare. Grazie di questi tuoi post.

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  3. È quello spazio vuoto lasciato dal corpo di ci ha amato, che resta intorno senza speranza, una madre è forma, sempre, anche da adulte, contiene i nostri dolori perché non rotolino troppo lontano da ciò che siamo, possiede semplici paroline magiche che ci rimettono insieme i pezzi e non sai mai abbastanza bene, quanto conti tutto questo fintanto che c’è. Lo spazio vuoto dell’assenza è destinato a diventare continente, e poi un giorno universo, Nessun ragionare riporterà pace, solo amando indecifrabilmente la rivedremo accanto.

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