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Inizio questo post ringraziando tutti quelli che hanno pensato a mio padre oggi, il giorno dell’anniversario della sua morte. Anniversario sembra forse un termine stonato in queste circostanze. Lo si usa per commemorare le cose belle: i matrimoni, il primo uomo sulla Luna, le battaglie antifasciste.  Infatti, per me il 17 ottobre è diventato, proprio da quest’anno, un anniversario, una cosa bella.

Sì, perché da oggi mio padre è morto davvero, avendo lui vissuto per 42 anni e morto da 42 anni. È una specie di traguardo, o almeno lo è per me. Quando si è morti più di quando si è stati in vita, cioè dall’anno prossimo, si cambia di categoria. Si diventa passato remoto. 

Quarantadue anni fa, ebbi la mia ultima conversazione con lui. Parlavamo di Fabio, mio cugino, nato per l’appunto il 17 ottobre. Appoggiati alla cassettiera in camera di una mia sorella, ci si diceva cosa avremmo potuto regalargli, forse questo, mah, magari quello gli piacerebbe di più.

Poi è sparito nel nulla. Il vuoto.

Cioè, il vuoto per lui, perché in questi 42 anni sono diventata ventenne, mi sono trasferita dall’altra parte del mondo, mi sono sposata, ho fatto tre figli, mi sono laureata, ho iniziato a lavorare, sono diventata una cinquantaquattrenne intelligente e molto sexy (cosa ridete?). Ho avuto amici, fidanzati, colleghi. Mi sono state sul cazzo delle persone, delle circostanze, delle ingiustizie. Ho fatto parte di una famiglia monca, complessa, unita, nervosa. Ho creato rapporti maturi con le mie sorelle, con mia madre, con gli zii e i cugini. Ho scoperto l’autismo, la disperazione e poi l’incredulità. Ho fatto cazzate, cose belle, perso tempo in nulla. Ho visto mia madre felice, triste, sola, fiera di noi e della sua indipendenza. L’ho vista in gran forma e poi l’ho vista morire. 

In poche parole: ho vissuto.

Ma non solo. È completamente cambiato il mondo attorno a noi, il modo di socializzare, di comunicare, di cercare l'anima gemella, di fare la spesa. Quello di pagare, di amare, di fare le guerre, di guidare, di scrivere, di immaginare il futuro. Fino a qualche anno fa, fingevo che se fosse tornato gli avrei dovuto spiegare tutto quello che c’è di nuovo: il bancomat, le catene di fast food americani, il telefonino, le macchine automatiche, la facilità di viaggiare, di conoscere persone diverse da noi con cui comunicare. Tutto.

E poi, in questi anni il mio rapporto con lui è cambiato mille volte. I primi anni piangevo di nostalgia, soffrivo per la sua assenza. Mi mancavano le sue coccole, i pomeriggi belli nel centro di Milano, quelli passati al cinema, a casa davanti alla tele. Poi, dopo anni, mi congratulavo spesso con lui: tanti dei suoi amici che mi raccontavano di come gli piacesse la cagnara, mangiare di ogni, bere, ridere e far ridere, far mattina. In poco tempo, mi dicevo, è riuscito a fare tantissimo, a divertirsi. Ha vissuto fino a 42 anni, poi però c’è gente che vive 80 anni senza lasciare traccia. Ha condensato la vita in poco tempo, senza farsi mancare niente.

Più avanti, invece, mi spiaceva di non potergli far conoscere la mia famiglia, i miei bimbi; mi sono mancati molto i suoi consigli: chissà cosa avrebbe detto della mia scelta di vivere lontano, o di quello che scrivo, delle scelte che ho fatto durante questa mia seppur piccola carriera. Magari mi avrebbe insegnato un sacco di cose o magari avrebbe detto vai, fai tu.

Infine, visto che oggi è davvero morto, fino a ieri il mio rapporto con lui era di rabbia, di rancore. Se è vero che ha fatto bene a fare quel cazzo che voleva da giovane, è anche vero che forse non avrebbe dovuto fare quattro figlie. Certo, nessuno si immagina di morire così giovane, ma non era un fuscello con 75 di minima e 120 di massima, il colesterolo basso e balle varie. E si sa come va a finire chi, con questo tipo di problemi, va a duecento all’ora senza mai fermarsi. L’unica volta che venne ricoverato in ospedale per via della pressione troppo alta, scappò il giorno dopo. Fa ridere, ma anche ‘sticazzi. Per non parlare di mia madre, che ha dovuto affrontare tutto lei: le figlie, il modo di mantenerci, il modo di insegnarci, tirarci su bene. Ricordo che dopo una cena da amici in cui raccontavano di quanto ci si divertisse a uscire con lui, tornando a casa mia madre mi disse: “Beh, certo. Io a casa con voi e lui a divertirsi…”. Come darle torto? Una pastiglia o due la mattina, un po’ di attenzione su certe cose e avrebbe potuto godersi la sua famiglia, i suoi nipoti e anche il suo successo.

Ma ormai è rimasto troppo indietro per poter recuperare tutta una vita. Ormai la parte monca che la sua assenza ha lasciato in me si è cicatrizzata ed è diventata callosa. Tutte robe passate: il rancore, la solitudine, la speranza cretina di poterlo rivedere, la voglia di spiegargli come gira il mondo. Adesso ormai ho capito che non ha più senso pensare a queste cose. Adesso, dopo quattro decenni, è morto.

E io, da oggi, mi sento finalmente libera. 


(Nella foto, mio padre con la sigaretta tra le dita) 

 

 

 

 


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