I dentisti







Dopo circa quattro anni, mi sono presentata dal dentista. Appena mi vede, mi fa: “Però, neanche una chiamata, una cartolina…”. È simpatico, e già questo è un fatto singolare anche se penso che la simpatia dei dentisti sia sprecata. Tu sei lì, bocca aperta, le sue dita e i suoi strumenti dentro e lui fa una battuta. Niente, non puoi ridere; anche sorridere può essere impegnativo. Ma soprattutto, se ti viene spontanea una risposta alla battuta devi aspettare che finisca di ravanare. Quando finisce, è già troppo tardi. Dovrebbero essere premurosi e silenziosi, oppure noiosi e veloci. Solo così, si può sopravvivere a una visita dentistica.

Comunque, il mio dentista mi saluta così. Devo ammettere che fortunatamente lo fa ancora prima di mettersi quei guanti latex blu che ti fanno fare cattivi pensieri. Appena mi arrampico su quella sedia comodissima, inizia il momento della mortificazione. La signorina mi mette una specie di bavaglino di carta attaccato alla camicia, appena sotto il mento. Poi fa andare la sedia tutta indietro ché penso sempre che se non la frena scivolo di testa. Non so mai dove tenere le mani, se accavallare i piedi o no. È una situazione piuttosto innaturale. Dulcis in fundo, appena prima di accendere la luce, quella attaccata a una specie di tentacolo, mi chiede di mettere gli occhiali da sole di plastica. Sono rosa con le stanghette blu, così facciamo contenti tutti.  “Così non ti da fastidio la luce negli occhi” è una scusa che non regge: dimmi che mi vuoi umiliare e la facciamo finita. Quando sono conciata così penso sempre: se in questo momento dovesse passare di qui qualcuno che cerco di abbindolare, dovrei scappare nella Repubblica del Congo e morire lì.

Poi torna il dottore, fa altre due o tre battute e mi chiede di aprire la bocca. Da quel momento fino alla fine della visita, mi piacerebbe che stesse in silenzio. Ma anch’io sono così: una volta che si inizia con le battute, è difficile smettere.

Il mio dentista, modestamente, non si limita a fare battute, ma mi fa anche delle domande del tipo: “Hai mai sentito parlare di questo podcast?”. Poi si ferma e aspetta una risposta. “Sci” dico con il terrore di sgagnargli un dito. Dico sì, perché così a volte finisce lì la conversazione. Ma non lui. Lui comincia a chiedermi qual è stata la mia puntata preferita. Cazzo mi fai domande ché sono qui con la bocca aperta piena di robe, conciata come una cogliona con ‘sti occhiali e ‘sto bavaglino? Ogni tanto, toglie le sue ditone dalla bocca così riesco a rispondere. Una palla, di solito, perché avevo detto di sì per zittirlo. “Hmm, ci devo pensare”, rispondo vaga. Mani in bocca di nuovo. Comincia a infilare uno strumento appuntato tra le gengive e detta alla signorina dei numeri. “Stasera me li gioco!”, penso di dire quando finisce questa tortura. No anzi, dico: “Ho capito il trucco! Sono tutti divisibili per tre!”. 

Invece quando finisce, la signorina mi infila una specie di cannuccia in bocca, che me l’asciuga come quando si ha una crisi d’ansia. Inizia la sentenza: non sei venuta a fare la pulizia per quattro anni e adesso dobbiamo farne una profondissima per pulire bene. Mi dice anche che mi deve togliere l’ultimo dente in basso a destra “perché quello ormai è andato”. È a questo punto che perdo la fiducia nei dentisti. Mi dico; è lì da almeno quarant’anni, non ha mai fatto male a nessuno. Con lui ho assaggiato ogni tipo di cibo, di bevanda. Ho limonato duro. L’ho lavato almeno due volte al giorno. Adesso, Mister Simpatia me lo vuole togliere? “Domande?’, mi fa. Una ne avrei: come si fa a dire addio a un dente che mi ha accompagnato fin qui? “Se fai la brava, arriva il topolino e ti porta cinquanta centesimi”.

“Ma io ho paura dei topi”, mi vien da dire, ma sto zitta. Basta che mi tolgano ‘sti occhiali di merda.

 

 


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