L'autismo non è una disabilità





Ieri ho trovato parcheggio proprio di fronte a casa. È una cosa quasi inimmaginabile, qui a Cambridge. Fatto la retro, sono entrata nel piccolo spazio senza dover rifare manovra, esco, chiudo a chiave. Vedo sul marciapiede la mia vicina che aspetta il pulmino che porta suo figlio a casa da scuola.

Abito in un piccolo gruppo di appartamenti con altre sei famiglie, tutte molto gentili e carine. Ma con Rebecca ho un rapporto speciale. Anche lei ha perso la mamma, ma, a differenza mia, aveva solo diciannove anni (è molto più giovane di me) e a volte ho la sensazione che cerchi in me un supporto come dire, materno. Inoltre, suo figlio maggiore, che ha chiamato Marin perché sia a lei che a suo marito – uomo molto affascinante che fa il cardiologo, ma coi capelli lunghi e la pelle scura – piaceva il mio nome. Dopo un anno dalla sua nascita, hanno cominciato a notare qualcosa di strano. L’anno scorso è arrivata La Diagnosi: autismo. Marin non è proprio come Luca, nel senso che parla, interagisce, è curioso. Ma condividono molte cose, tra cui una difficoltà sensoriale piuttosto marcata e un attaccamento quasi morboso a telefonino o iPad, per cercare di neutralizzare quello che sta attorno a loro: suoni, persone, casino.

Quando Rebecca, con gli occhi bagnati di lacrime, venne da me per annunciare la diagnosi, mi venne spontaneo dirle: “Congratulazioni!”. Le si mise quasi a ridere, quindi spiegai: “Ci saranno momenti difficili, frustranti, ma Marin ti accompagnerà in un mondo, il suo, ricco e interessante. Imparerai un nuovo linguaggio, ti aiuterà a scoprire che quello che per noi sembra essenziale per avere successo è solo un punto di vista e non la soluzione per tutto. Vedrai, sarà un viaggio faticoso, ma anche bellissimo. Ti insegnerà lui come essere sua mamma, attraverso la reazione rispetto a molte situazioni che per noi sono accettabili. Lui urlerà, sarà felicissimo o impaurito e si comporterà in modo tale che tu capisca che certe circostanze per lui sono troppo difficili o molto belle da affrontare. Rilassati, ascoltalo e cerca in te la curiosità e l’energia per affrontare esperienze diverse da quelle che avevi prima della diagnosi. Io ci sono. Sono qui per te, per Marin e per Shawn. E comunque, ripeto: congratulazioni!”. Lei mi abbracciò stretta e mi intrise la maglietta di lacrime.

Da allora, ogni volta che ci incontriamo (spesso), ci fermiamo a chiacchierare del più e del meno, e spesso parliamo di autismo, dei nostri ragazzi. Mi chiede sempre consigli, e io le ripeto sempre che è difficile all’inizio, ma che poi vedrai…

Insomma, dopo il mio super culo del parcheggio di ieri, l’ho trovata sul marciapiede ad aspettare il pulmino. Appena scesa dalla macchina, mi ha abbracciato e bagnato la maglietta ancora una volta. “Grazie per avermi aiutata, adesso sto cominciando a capire cosa intendi, e hai ragione: Marin davvero mi sta insegnando un sacco di cose. Da sola non ci sarei mai arrivata”. Ci saresti arrivata, cara amica mia, credimi. “Sì, ma più tardi”. Mi ha anche detto di volermi bene e di essere felice di essere vicine.

Anch’io lo sono, molto. Perché c’è senza dubbio un aspetto importante che rende la nostra vita davvero difficile: la solitudine. Credo che sia inevitabile  allontanarsi da chi non può capire, da chi ha figli normodotati (che parola di merda!) che non deve affrontare difficoltà come le nostre, da chi non conosce l’autismo e giudica. A volte, spesso, non si ha voglia di fare lo spiegone. A volte è meglio rimanere un po’ da parte. Avrei dovuto dirle che avere una persona vicino a me con le stesse difficoltà mi fa sentire meno sola, che aiuta molto anche me passarle gli appunti che mi sono scritta ogni volta che ho scoperto qualcosa di importante, per migliorare la vita di Luca, mia e di tutta la famiglia. Finalmente conosco una persona a cui non devo dare molte spiegazioni su comportamenti fuori dalla norma, sui momenti frustranti, o tristi, o troppo complessi da dover spiegare.

L’autismo, le ho detto, secondo me è come una società a sé, con le proprie norme, le proprie regole. Dietro la parola disabilità (un’altra parola di merda) si nascondono tanti preconcetti: marginalizzazione, disperazione, incapacità di partecipare, sfiga. E se invece di usarla, provassimo a vedere nell’autismo semplicemente un altro modo di vivere? Se fossimo noi quelli che devono imparare, e non le persone autistiche, i diversi?

Le ho raccontato del mio nuovo progetto: un podcast proprio su questi temi. In un mondo che sta diventando sempre più multiculturale, perché l’autismo, come l’omosessualità, come la differenza del colore di pelle, di religione, di cultura, sono ancora viste come deviazioni invece che comunità all’interno della nostra che si devono rispettare e conoscere? Storielibere, la piattaforma podcast che ha accettato con enorme entusiasmo il mio progetto, sta cercando sponsor che possano sostenerlo. Perché ci sono tantissimi Marin e tantissime Rebecca da sostenere, a cui dare la speranza che un giorno riescano anche loro a trovare dignità, libertà di essere quello che sono senza essere considerati disabili. E ci sono molte più persone a cui spiegare un po’ di cose che possano aprire la mente e il cuore.

La speranza, si dice, è l’ultima a morire.


Nella foto: Mister Shmoo che ascolta Martin Sexton per l'ennesima volta.


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