Rivoglio la carta d'identità
La cosa brutta di venire a Milano è che poi me ne devo andare. Soprattutto questa volta, che mi dovrò fiondare in una nazione in cui la democrazia sta crollando come la pelle del viso di un vecchio.
In tutti questi anni lontano da Milano sono riuscita a fare quasi tutto: sono stata studentessa, moglie, mamma, combattente in prima linea per i diritti di mio figlio, di Sofia e i diritti della comunità lgbtq, di Emma e i sacrosanti diritti delle donne. Ho sposato l’uomo più dolce del mondo, che è anche la persona più intelligente che io abbia mai conosciuto. Ho vissuto in campagna, poi a Boston, poi a Brooklyn, poi di nuovo a Boston. Ho incontrato persone eccezionali, amici che amerò per sempre. Benché tardi rispetto alla norma, ho iniziato una carriera, seppur piccolina, che mi ha dato e continua a dare soddisfazioni. Ho superato esami difficili con dignità, uscendone più forte e, a volte, più saggia.
Eppure, non sono mai riuscita a togliermi la malinconia per Milano. È proprio vero che partire è un po’ morire. Quando sono negli Stati Uniti, non sto tutto il giorno a pensare a Milano, ovviamente: sarei psicopatica se lo facessi. Ma quando arrivo qui sento il peso del tempo passato lontano, cerco sempre di recuperare almeno qualcosa in una passeggiata, in tre fermate di metropolitana, in una pizzeria. Mi piace pensare che chi mi vede e non mi conosce pensa che io sia ancora parte di questa città, che sia nata, cresciuta e abbia vissuto sempre qui. Mi scoccia molto quando viene fuori che non abito qui da tanti anni.
Oggi sono andata in posta a chiudere un conto corrente vecchio e costoso. Mi hanno chiesto i documenti e ho allungato sulla scrivania il passaporto. “Non ha la carta d’identità?”, mi ha chiesto il giovane direttore. Non me lo doveva chiedere, ecco. D’un tratto ho dovuto spiegare che no, io non vivo più qui, che non sono residente qui, che qui è dove sono stata per tanti anni ed è proprio qui che vorrei vivere. Ma no, vivo negli Stati Uniti. “Dove?”, come se cambiasse qualcosa. “A Boston”, rispondo con un po’ di magone. “Ah bello!”, risponde il giovane direttore mentre cerca di far partire la stampante che nel frattempo si è inceppata.
Bello.
Esco dall'ufficio postale e mi ritrovo in via Zanella, vado a trovare mia zia in via Sismondi, non nello stesso palazzo in cui ho sempre vissuto, ma in uno vicino. Giro a sinistra e sono in via Lomellina, poi al semaforo a destra verso via Sismondi.
A Milano mi muovo come se non fossi mai partita, so come arrivare da qui a lì, uso i mezzi, soprattutto adesso che non c’è più neanche l’incubo del biglietto. Mi piace essere portata in giro dagli autobus arancioni, dai tram, dai vagoni della metro. Mi piace guardare fuori dal finestrino, mi piace schiacciare il tasto rosso appena prima di scendere. Mi piace tutto.
Mi dico che forse mi piace perché non ci vivo, e chissà, magari è vero. Cercavo un appartamento in vendita piccolino a Milano e i prezzi sono assolutamente ridicoli. Eppure, spendere così tanti soldi in affitto per stare qui un mesetto mi sembra assurdo, vorrei avere un posticino dove venire quando ho voglia, soprattutto adesso che Luca non vive più con noi e possiamo muoverci più facilmente. Se Milano fosse un grande telo su cui si ricama un bel disegno, mi piacerebbe esserci anch’io, un piccolo punto croce, come a dire che faccio parte anch’io del tessuto sociale.
A volte odio essere così melensa. Se rinasco, giuro, mi butto nelle materie scientifiche.
( foto rubata senza ritegno da Internet )
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