Vita, morte e pantofole di lana cotta
A voler vedere, stamattina era anche iniziata bene. È venuto a trovarmi il mio amico Giorgio con delle brioche strepitose e abbiamo chiacchierato per un’oretta. Ma poi tutto è andato scemando velocemente: Sofia ha rotto la chiave nella serratura del cancello dove dove alloggia, io ho scoperto che devo andarmene domani mattina invece che tra quattro giorni, come stabilito. Emma mi chiama per dirmi che quando compie diciotto anni, e cioè tra dodici giorni, ha già preso appuntamento per farsi fare non uno, ma cinque tatuaggi in un solo giorno. Il giramento di coglioni è arrivato all’apice verso mezzogiorno, quando ho cominciato a fare le valigie e a svuotare questo che per un mese è stato il mio appartamento, a cui mi sono stupidamente affezionata. Vabbè.
Fortunatamente mi chiama mio zio per chiedermi di andare a pranzo da loro. Lì, davanti a una pasta e fagioli in cui mia zia aveva nascosto della pancetta che sgamo subito (io sono vegetariana, concetto per lei assurdo), mi sfogo un po’. Parlo soprattutto della mia preoccupazione per Luca e per il fatto che probabilmente ha avuto e continua ad avere crisi epilettiche nella casa in cui vive e che non viene monitorato abbastanza. Il fatto è, e chi conosce l’epilessia lo sa bene, che ogni crisi potrebbe essere pericolosa: Luca potrebbe cadere dal letto e sbattere la testa, potrebbe soffocare, la crisi potrebbe durare più di tre minuti, il limite massimo dopo il quale bisogna spruzzargli nel naso una medicina per fermare le convulsioni e chiamare un’ambulanza, perché diventa molto pericoloso per il cervello.
La casa di Luca è su tre piani: a piano seminterrato ci sono due stanze (una di Luca e una di un altro), più un bagno e una piccola lavanderia. A piano terra ci sono la cucina e un salotto grande e poi, di sopra, ci sono altre due stanze occupate da due utenti, sempre con bagno e lavanderia. Fuori dalle stanze da letto, la notte ci sta una persona, seduta su una sedia, a monitorare se qualcuno ha bisogno di qualcosa, se esce dalla stanza o se si sente male. Sono certa che durante la notte, chi deve stare seduto un po’ si appisola e un po’ si guarda un film al computer con le cuffiette. Giustamente aggiungo: sono già dei santi a scegliere questi turni insostenibili. Il fatto però che nelle ultime due volte che Luca è venuto da noi ha avuto due crisi, mi fa pensare che forse ne ha anche a casa sua.
Ieri sera, dopo una lunga discussione con Dan al telefono (Dan pensa che sia improbabile che Luca non abbia avuto convulsioni a casa sua e che nessuno se ne sia accorto), abbiamo deciso di parlare con lo staff della casa per trovare un sistema più sicuro per monitorare Luca.
Insomma, raccontavo ai miei zii questi miei pensieri, anche se poi abbiamo parlato d’altro. Sono uscita da casa loro più sollevata: mi ero un po’ sfogata ma, avendo loro 86 anni a testa e non voglio che si preoccupino più di tanto. Insomma, alla fine abbiamo riso molto.
Tornando a casa chiamo Dan e cominciamo a parlare di come affrontare il discorso non solo con lo staff, ma anche con il neurologo (“Perché gli sono tornate le crisi epilettiche dopo tanto tempo? Cosa fare?”), con le infermiere addette agli utenti, con l’organizzazione a capo dello staff della casa e altro. Parlando di queste cose importanti, mi siedo su una panchina di Piazzale Susa a fumare una sigaretta. Nell’appartamento che devo lasciare domani non si potrebbe fumare, in teoria. In realtà finora ho aperto la finestra e ho fumato lo stesso, ma data la mia partenza imminente ho pensato che da oggi sarebbe meglio fumare fuori.
Mentre parlo, noto un signore anziano, con il bastone vestito in modo elegante tranne un paio di pantofole di lana cotta ai piedi. Vedo che si dirige verso di me. Penso: “Strano, con tutte le panchine libere, vuole venire a sedersi di fianco a me?” Pensiero velocissimo, arrivato tra una parola e l’altra di Dan che mi sta spiegando delle cose. Il signore si avvicina di fronte a me e mi dice qualcosa che non capisco. “Scusa un attimo, Dan, c’è uno che mi sta dicendo qualcosa”. “Prego?”, dico al signore per fargli ripetere quello che mi aveva appena detto. “Ma come, alla sua età fuma ancora? Ma non si vergogna? Lo sa che le fa male?”.
Lo guardo pensando a come reagire a questa interruzione di un fatto grave come la vita e la morte di mio figlio nel caso non venga monitorato meglio: cosa faccio, lo mando a cagare o lo ignoro e continuo la mia conversazione? "Ha ragione, lo so che fa male", rispondo da persona garbata. “E allora perché continua?”, insiste lui. Si scusa per l’interruzione e se ne va, con il suo bastone e le sue ciabatte di lana cotta. “Ma chi era?”, mi chiede Dan. “Uno”, faccio io. Poi riprendiamo la conversazione e poco dopo ci salutiamo.
In ascensore faccio mente locale e mi accorgo di essere stata insultata due volte in una frase, e cioè che il signore con il bastone e le ciabatte di lana cotta mi ha dato della vecchia e anche della cogliona che continuo a fumare.
Ma quando sono arrivata al mio piano e la porta di alluminio si è aperta automaticamente, ho anche pensato che ci sono persone nate con il dono della sintesi e che per questo le invidio un po’.
(Nella foto le panchine di piazzale Susa)
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